La fotografa-autista che faceva gli scatti ai clienti
Parliamo di Kathy Shorr, fotografa americana che nel 2018 è finita sul NY Times per alcuni scatti del suo portfolio Limousine (oggi un volume appena pubblicato) con immagini tutte realizzate mentre faceva da autista per eventi speciali. L’intervista

New York, 23 maggio 2025. Dolcetti al pistacchio e un tè verde sorseggiato durante l’intervista con Kathy Shorr (Brooklyn, 1988), nel luminosissimo e accogliente loft a Tribeca dove la fotografa vive dalla fine degli Anni Settanta. Girare per la Grande Mela è sempre stato di grande ispirazione per lei, soprattutto al volante. Ancora oggi possiede una Mini Cooper, ma c’è stato un periodo, tra la fine del 1988 e l’89, in cui per la tesi di laurea alla School of Visual Arts ha guidato le limousine fotografando i passeggeri. Una selezione di scatti del portfolio Limousine che ne è nato è stata pubblicata sul New York Times il 6 dicembre 2018 e presentata al festival Visa pour l’Image di Perpignan. Nel novembre 2024 è stato pubblicato l’omonimo libro dalla casa editrice italiana Lazy Dog. Con l’occasione, l’abbiamo intervistata.

La storia del progetto Limousine di Kathy Shorr
Come nasce il progetto Limousine?
All’inizio ero interessata alla fotografia formale ma per la tesi alla SVA decisi che volevo fotografare le persone. Avevo già lavorato un anno intero sul tema del ballo da sala, utilizzando sempre il bianco e nero. All’epoca a New York i locali erano molto eclettici e diversi da come sono oggi – molti non esistono neanche più – poteva capitare che ex ballerine di Broadway aprissero il proprio studio, un loft, frequentato da persone eccentriche. Prima di iniziare questo progetto pensavo che le persone che ballavano avevano già un’intimità, invece ho realizzato che la maggior parte della gente danzava per il puro piacere del ballo.
E poi, che cos’hai scoperto?
C’erano vecchie signore, giovani, gay, donne eterosessuali di ogni etnia. Ho trovato affascinante tutto ciò. Per la tesi volevo fare un altro progetto che m’incuriosisse e mi facesse imparare attraverso la fotografia, ma anche guadagnare qualche soldo. Dato che amo guidare – impazzisco per qualsiasi tipo di automobile, sportiva e non – pensai di cercare lavoro come tassista. Con il taxi, però, non avrebbe funzionato perché sarebbe stato tutto troppo di fretta. A me piace parlare con la gente, cercare una connessione, guidare la limousine poteva invece essere una buona idea, considerando che ci sarebbe stato più tempo a disposizione, visto che il minimo della corsa era due o tre ore.
Come hai fatto a trovare lavoro?
Cercai sulle pagine gialle e tra le compagnie trovai la Chrystal Limousine Company che si trovava a Brooklyn. Quando mi presentai per il colloquio non sapevo cosa mi avrebbero chiesto, magari la patente di chauffeur o altro. Invece, fui assunta immediatamente. Mi fecero solo una lezione di 20 minuti su come guidare una limousine che di base è come un’auto normale, le uniche differenze sono la lunghezza e la potenza. Da subito ho avuto la consapevolezza che ce l’avrei potuta fare. Iniziai già dalla settimana successiva.
Raccontaci di più.
Lavoravo soprattutto nei weekend in occasione del ballo di fine anno scolastico, della quinceañera(festeggiamento per i 15 anni di una ragazza) e dei matrimoni. Con il ballo di fine anno scolastico era più complicato perché le persone stavano fuori per tutta la notte, bevevano, erano soprattutto teenager ma con i matrimoni andava meglio. Durante il lavoro potevano esserci delle ore di pausa, ma era comunque divertente e ho sempre incontrato belle persone. Una volta ho portato un signore al Lincoln Center e dovevo aspettarlo per quattro ore. Cosa avrei potuto fare a Upper West Side per tutto quel tempo? Lì vicino c’era il cinema, quindi parcheggiai e andai a vedere Il pranzo di Babette. Ho fatto questo lavoro per nove mesi, guidando e fotografando le persone che portavo in giro.
Come si è sviluppato, dunque, il progetto fotografico?
Curiosamente, quando all’epoca andai con questo portfolio al New York Post, il photo editor – di cui non ricordo il nome – mi chiese come mai, ad eccezione di due immagini in cui ero riflessa nel vetro del finestrino, non ci fossero foto di me mentre ero al volante. Era veramente contrariato da ciò e non prese le foto. Nello stesso periodo erano stati fatti altri lavori da diversi fotografi in cui questi – in un’epoca pre-selfie – erano presenti negli scatti. Per me era diverso, m’interessava solo la gente.
La Chrystal Limousine Company sapeva che fotografavi i clienti?
Sì, glielo avevo detto. Erano altri tempi. Non si facevano firmare le liberatorie alle persone che si fotografavano. Naturalmente spiegavo il mio progetto ai clienti e chiedevo loro il permesso di fotografarli. Sono stati tutti d’accordo ad eccezione di un uomo che ero andata a prendere all’aeroporto.
Si percepisce una certa complicità nel tuo sguardo di fotografa con i soggetti, vestiti bene con gli abiti della festa…
Quando la gente è vestita bene si sente a proprio agio ed è molto più aperta nel farsi fotografare. Le persone che ho fotografato erano felici. Parlavo molto con loro e anche il mio lavoro di chauffeur di limousine che prevedeva che aprissi le portiere, le facessi entrare nell’abitacolo, le portassi a destinazione, fermandomi se volevano andare in un negozio le predisponeva positivamente.
Tutte le fotografie sono in bianco e nero, quanto era importante per te l’utilizzo di questo linguaggio?
Avendo studiato fotografia amavo il bianco e nero. Il colore può essere una distrazione. Ora, invece, vedo soltanto a colori. C’è solo una foto del progetto Limousine che avrei voluto scattare a colori: due damigelle d’onore vestite di nero, che all’epoca non era certo usuale, con fiori e foglie dipinte di nero. Era un po’ spettrale e strano ma in bianco e nero non si coglie l’effetto.
L’essere nata e cresciuta a Bushwick, Brooklyn, ha influenzato il tuo sguardo di fotografa?
Oggi Bushwick è di tendenza con bellissime case di Brownstone, ma allora era un quartiere di lavoratori per lo più italiani, irlandesi, ebrei, tedeschi. La mia famiglia, sia materna che paterna, è di lì. Sono nata in una multigenerational house, una casa di tre piani dove vivevamo tutti insieme, i bisnonni, i nonni e i miei genitori: una famiglia tradizionale dove solo gli uomini lavoravano.
Qualche ricordo familiare particolare legato al progetto?
Mia nonna Lulu Weiss Prendergast, una delle due persone a cui è dedicato il libro Limousine, era l’unica a casa a possedere un’automobile. Aveva una favolosa Chevy (Chevrolet) di due tonalità verde chiaro e scuro. Andavo sempre in giro con lei.
Lei ha significato molto per te?
Mia nonna è stata una figura fondamentale della mia vita, molto più di mia madre; il fatto che guidasse un’automobile per me rappresentava la libertà. Quando ero a Brooklyn, e successivamente nel Queens, l’obiettivo di molte persone che aspiravano a fare carriera era quello di lasciare quelle zone e trasferirsi nella City. Oggi questo sentimento è molto diverso, dato che a Brooklyn si trasferiscono molti giovani, preferendola a Manhattan. Per me Brooklyn è stato un luogo di lavoro molto familiare.
E perché?
Quando facevo la chauffeur mi sentivo a mio agio con le persone che accompagnavo alle feste e con cui potevo identificarmi perché ero come loro. Pur provando un senso di familiarità e un po’ di nostalgia, avevo però scelto di vivere nella City. Laurearmi alla School of Visual Arts mi aveva cambiato la vita. Avevo un piede nella mia vecchia vita, ma l’altro era nel mio nuovo mondo e procedeva.












Gli altri progetti di Kathy Shorr
Nel 2017 è stato pubblicato il tuo libro SHOT: 101. Survivors of Gun Violence in America (powerHouse, Brooklyn) e due anni dopo, nel 2019, hai fondato l’organizzazione no-profit SHOT: We the People per promuovere SHOT: We the Mothers, un progetto premiato dalla National Press Photographers Association che racconta la storia di madri che hanno perso i propri figli a causa della violenza con armi da fuoco. In che modo questo progetto riflette i diversi generi della fotografia di cui sei interprete: fotografia documentaria, ritrattistica e street photography?
Tutti e tre questi generi mi appartengono, ma non so mai quale possa essere la direzione del mio lavoro. Lascio che sia il soggetto a portarmi. In SHOT: 101. Survivors of Gun Violence in America volevo far parte della storia di quei sopravvissuti perché è qualcosa che può succedere a chiunque. Il progetto coinvolge volutamente a vari livelli. Mi considero anche street photographer perché per questo lavoro sono stata in luoghi che non conosco, magari un angolo di strada a Brooklyn o un’altra città. Lo definisco una sorta di guerrilla portraiture (ritrattistica da combattimento) perché fotografo senza un programma predefinito. Ma c’è sempre collaborazione tra il soggetto e me. Voglio che ci sia la percezione che io possa essere la sua voce. Non dico mai alle persone come vestirsi o mettersi in posa. Si tratta anche di una fotografia documentaria, un linguaggio che mi appartiene come fotografa.
Cosa ti ha spinto a iniziare questo progetto?
Nel 2013 insegnavo arte e fotografia in una scuola pubblica di New York e vedendo tanti ragazzini che avevano le tessere commemorative di persone uccise appuntate sugli abiti – solitamente si tratta di parenti o amici uccisi con armi da fuoco – mi sono chiesta cosa ne è, invece, dei sopravvissuti di cui nessuno parla. Si pensa che siano fortunati perché sono sopravvissuti e che per questo stiano bene. Ho deciso di ascoltare le loro storie, forse anche perché anch’io ho vissuto un’esperienza analoga. Anni fa mi è stata puntata in faccia una pistola, mentre ero nel mio loft nel Village e sono stata derubata.
Deve essere stato terribile.
So quello che si prova: l’orribile sensazione di non poter controllare la situazione. Nel 2013, quindi, ho pensato di innescare una riflessione osservando i sopravvissuti. Un giorno ero in cucina con la televisione accesa e al telegiornale ho visto un uomo a cui era stato sparato un mese prima. Era indonesiano con un nome lunghissimo, non sarebbe stato difficile rintracciarlo cercando su google. Ho trovato Antonius Wiriadjaja e gli ho scritto spiegandogli il mio progetto. Gli chiesi se era disponibile ad essere il primo del progetto ad essere fotografato. Rispose di sì. L’ho fotografato circa sei settimane dopo che era stato colpito accidentalmente mentre camminava per una strada affollata di Brooklyn. Il bersaglio era l’ex ragazza della persona che ha sparato. Mi confrontai con lui sull’idea di fotografarlo nel posto in cui era stato colpito. Fu d’accordo e un sabato pomeriggio andammo lì. C’era molta gente e alcune persone lo riconobbero. Gli chiesi se potevo fotografare la cicatrice che aveva sull’addome che era ancora fresca. Quando tornammo verso la mia auto mi ringraziò, dicendo che tornando sul posto in cui gli avevano sparato era riuscito a riprendersi lo spazio. Anche altre persone, in seguito, mi hanno detto di aver provato lo stesso sentimento catartico.
Manuela De Leonardis
Libri consigliati:
(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti)
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati