Oltre il Futurismo. Gli Anni Venti di donne e sognatori, a Genova

Palazzo Ducale, Genova – fino al 1° marzo 2020. Con la Grande Guerra, tramonta la Belle Époque; da quelle ceneri nacque un’Europa radicalmente diversa, nacque su ferite che non si richiusero e che portarono a dittature e altri conflitti. Ma, paradossalmente, quella società alla ricerca di un’identità fu anche artisticamente vivace, capace di indagare concetti profondi. L’Italia non fece eccezione. A Palazzo Ducale una grande mostra racconta quegli anni convulsi, fra pittura futurista, indagini psicologiche, propaganda politica e inquietudine.

A cancellare l’ebbrezza della Belle Époque e dell’interventismo, le centinaia di migliaia di reduci dalle trincee, buona parte dei quali mutilati e invalidi: l’Italia si scopre inerme, ferita, indebolita, nonostante la vittoria militare. C’è un senso di lutto da elaborare, un omaggio da rendere. Accanto al realismo di Chini e Costantini, l’amaro lirismo di Soffici e quello, ben più sardonico, di Viani: la mancata soluzione della questione dei reduci contribuì all’avvento del fascismo. Ma c’è anche chi, come Anselmo Bucci in Millenovecentodiciotto, celebra l’eroismo dei combattenti, immortalando un gruppo di loro in un momento di riposo, ai piedi di un muro che riporta un celebre motto degli Arditi. Un dipinto ispirato a una fotografia piuttosto nota scattata al fronte nelle vicinanze di Plava.
Ma era necessario guardare avanti, riprendere il corso dell’esistenza e respirare quella modernità che si presentava sotto forma di automobili, tram, elettricità, del jazz, della moda, del design. Senza la tragicità di fondo della Germania di Weimar, anche l’Italia ebbe la sua café society, più o meno vicina al regime come ben raccontano Gli indifferenti di Moravia. La vita moderna ha il suo epicentro in città, dove sfrecciano tram e automobili tanto cari ai futuristi; sfondo della società moderna, con le sue luci, i caffè, i quartieri industriali, le insegne pubblicitarie, i cinema. La mostra genovese si concentra sul suo lato più intimo, tralasciando le ubriacature futuriste per la velocità, e lascia invece spazio alle angoscianti, surreali vedute di Domingo Motta, dove scintillanti grattacieli che ricordano quelli di Sant’Elia sono avvolti in nebbie spettrali e l’elettricità crea strani cortocircuiti, metafore di più profonde tensioni interiori. Nei paesi, soprattutto fra gli anziani, sopravvivono le tradizioni come il rosario serale, in un’atmosfera che sa già di rimpianto e di ricordo. La società contadina comincia a incrinarsi e l’arte ne raccontò il tramonto.

LA DONNA

Dopo le esperienze di lavoro nelle fabbriche e nelle opere assistenziali per i soldati al fronte negli anni della guerra, il ruolo femminile nella società ne esce profondamente cambiato. Persino la maternità stessa, un soggetto classico nell’arte, assume caratteri più veri come nella tela di Gino Severini: lo sguardo stanco tradisce la fatica e forse anche una rassegnazione non completa. Mal rassegnandosi a riprendere il posto di “angelo del focolare”, la donna di città sfoga la sua voglia di emancipazione sociale: sfoggia acconciature e abiti pratici e androgini, e fuma le prime sigarette. Casorati la ritrae disinvolta e algida, mentre Geranzani ne scopre la natura “proibita” di soubrette, un Blaue Engel in salsa italiana. Mentre Alimondo Ciampi immortala nel bronzo un bacio saffico, simbolo non solo di provocazione ma di un’epoca che avanza. La Fiume dannunziana stava facendo scuola in fatto di tolleranza di costumi. Su toni più discreti, le femme fatale di Oppi e Bucci, sulla scia della ritrattistica naturalista, ma qui intrisa di malinconia à la page, con eleganti tubini sul modello di Chanel e discreti gioielli che rivelano il minimalismo del nascente design moderno. Donne che mostrano personalità complesse, amanti del bello e dell’arte, spregiudicate e intraprendenti come avrebbero potuto essere Margherita Sarfatti o Paola Masino.

Antonio Donghi, Le lavandaie, 1922. Courtesy Galleria Russo, Roma

Antonio Donghi, Le lavandaie, 1922. Courtesy Galleria Russo, Roma

DEMONI E SPETTRI

Disorientato nella grande città, raggelato dai venti di guerra, oppresso dalla dittatura, l’italiano degli Anni Venti ha i suoi demoni da combattere, non troppo diversi da quelli che agitano le acque nell’Europa del Nord. Dagli incubi di von Stuck e Moreau, Sexto Canegallo trae ispirazione per dar forma alla decadenza demoniaca di una società inebriata e poi schiacciata dalla massificazione e dalla tecnologia. L’interesse per le pulsioni e le manie, che data dalla fine dell’Ottocento, torna in voga mutuato dagli espressionisti, Ernst e Klinger in primis, nelle opere di Wolf e Fuga. Esiste però anche un approccio a questo sentire di matrice più strettamente italiana, influenzato dal teatro di Pirandello, dall’ossessione della maschera e della doppiezza; Severini unisce sogno e realtà, inconscio e raziocinio, raccontando l’essere umano nella sua tragicommedia, immersa nei ruderi della civiltà italica. Di sapore più ottocentesco, le Maschere di Malerba, dai falsi, seducenti sorrisi e stropicciate nudità.
Fuori c’è un mondo dinamico, ma anche violento, affarista, ipocrita, in cui è facile sentirsi soli o troppo deboli.

IL REGIME

Salito al potere nell’ottobre del ’22, rafforzatosi dopo il 3 gennaio ’25, Benito Mussolini era il volto di un’Italia, nel bene e nel male, nuova. Nel bene, per la sua vivacità culturale; nel male, per la mancanza di democrazia, che curiosamente riverberò limitatamente sul mondo dell’arte. Non mancarono tuttavia gli omaggi al Duce, oltre a quelli dei futuristi. Gli scultori furono fra i più attivi nel celebrare il “primo soldato d’Italia”, con l’elmo romaneggiante e lo sguardo duro come lo immortalò Adolfo Wildt, oppure senza volto nella versione da milite romano di Thayaht. Diverso l’approccio di Giandante X, che nei tratti deformati del Duce, già nel 1923 sembra quasi prevedere, o forse auspicare, la caduta del fascismo.

Alimondo Ciampi, Il bacio, 1929. Wolfsoniana Palazzo Ducale, Genova

Alimondo Ciampi, Il bacio, 1929. Wolfsoniana Palazzo Ducale, Genova

EPILOGO

A sintetizzare, con forte simbolismo, lo spirito del decennio, in chiusura di mostra due opere di Arturo Martini: La pisana a La lupa ferita; la serenità arcaica del bronzo e della pietra racchiude il desiderio, ora pacato ora violento, di evasione dalla realtà, l’inquieto inseguire utopie e rifugiarsi nel profondo di sé stessi.
La mostra di Palazzo Ducale racconta il lato più intimo e profondo dell’arte italiana degli Anni Venti, quell’arte che, in linea con il sentire europeo, s’interroga sulle incertezze dell’individuo. Accanto all’avanguardia futurista si sviluppano una pittura e una scultura attente all’indagine del reale, della dimensione intima e psicologica dell’individuo, venate di silenzio e di malinconica poesia.

Niccolò Lucarelli

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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