Poesia e sogni perduti. L’artista Vincenzo Scolamiero in mostra a Roma 

In questa intervista, Vincenzo Scolamiero ci racconta il suo progetto pensato appositamente per la Casa Museo Hendrik Christian Andersen. Una mostra in cui il travertino incontra la pittura

L’artista Vincenzo Scolamiero (Sant’Andrea di Conza, 1956; vive e lavora a Roma) racconta la sua mostra alla Casa Museo di Hendrik Christian Andersen, il villino liberty costruito dallo scultore, pittore e urbanista visionario statunitense-norvegese di cui porta il nome. La mostra è un dialogo ed affronta l’utopia novecentesca di Andersen così come i racconti di Büchner e di Woolf, l’importanza della poesia così come il gesto pittorico musicale, fino al dialogo artistico tra la città eterna e la sua campagna. 

Vincenzo Scolamiero, Come sogni perduti, Casa Museo Hendrik Christian Andersen, Roma, 2025
Vincenzo Scolamiero, Come sogni perduti, Casa Museo Hendrik Christian Andersen, Roma, 2025

Intervista a Vincenzo Scolamiero 

Hai concepito la mostra come un’installazione organica che entra in risonanza con l’architettura e la visione di Andersen. Cosa ti ha guidato nella costruzione di questo dispositivo poetico e spaziale?  
La Casa Museo Andersen è come un sogno incompiuto, non è un contenitore neutro. L’atmosfera è caratterizzata dalla qualità delle opere contenute e dalla presenza dello scultore, riconoscibile in ogni angolo e in ogni dettaglio architettonico del villino. Tornando più volte sul posto, ho ascoltato le sensazioni fantasmatiche, oniriche, che provavo attraversando quelle sale. C’era qualcosa nelle luci filtranti e nelle decorazioni liberty che mi ricordavano due racconti di Virginia Woolf: Il segno sul muro e La casa stregata. Ho voluto che le mie grandi tele fossero percepite come ospiti di quegli spazi, inserite nelle porte cieche o poggiate su blocchi di travertino in dialogo con i bozzetti utopici ed i gessi mastodontici di Andersen.  
 
La tua installazione prepara un’architettura effimera e poetica che sfrutta il travertino, la pittura ed il reperto. Il tutto evoca il peso della storia e del tempo. È un dialogo con Andersen? 
Sì, il travertino è vivo: conserva strati di memoria. I blocchi diventano piccole rovine simboliche di quell’utopia mai realizzata, testimoni di un progetto di città-mondo dove arte, scienza e spiritualità si fondevano. La pittura che dialoga con la pietra evoca la caduta di un sogno e insieme ne alimenta la persistenza. Il contrasto fra materiali e colori restituisce l’idea di un futuro incompiuto, un’eredità frammentata che spero si rinnovi nello sguardo di chi osserva. 

Nel tuo lavoro il gesto pittorico è spesso respiro, eco, vibrazione. In questa mostra incontra il sogno perduto di Andersen. 
Il suo era un sogno profondamente novecentesco perché credeva nella possibilità di un progresso collettivo guidato dall’arte. Oggi, in un mondo frammentato, il mio gesto pittorico conserva un valore nostalgico e insieme di speranza. Il nero profondo delle lacche rimanda alla notte di un futuro perduto, gli accenti dorati sono bagliori di memoria. Restituire quella tensione significa custodire un’eredità e provare ad alimentare la nostra capacità di immaginare dei domani diversi. 

Andersen pensava ad una città perfetta dove arte, scienza, spiritualità e filosofia convivessero. Cosa resta, secondo te, di quell’utopia? 
World Center of Communication mi affascina perché travalica l’arte e diventa manifesto sociale. Andersen lo immaginava come fulcro di una cultura globale. Oggi, con la rete che promette relazioni senza confini, quell’idea appare più contemporanea che mai, ma mostra anche le contraddizioni della nostra epoca. Ciò che resta è l’intento di armonizzare saperi diversi: la casa museo è l’unico luogo in cui quel sogno è tangibile. 

Vincenzo Scolamiero, Come sogni perduti, Casa Museo Hendrik Christian Andersen, Roma, 2025
Vincenzo Scolamiero, Come sogni perduti, Casa Museo Hendrik Christian Andersen, Roma, 2025

Nel titolo della mostra, Come sogni perduti, si legge un’eco dolente ma anche necessaria. Dipingere è ancora, per te, un atto utopico? 
Sì, perché ogni pennellata rincorre un’esperienza che sfugge. Il titolo della mostra richiama Lenz, un racconto di Büchner che leggo e rileggo da anni e che narra la condizione dell’artista che insegue visioni destinate a dissolversi. Büchner scrive pagine di una intensità poetica impressionante, le sue parole sono note musicali di una forza timbrica ineguale. Lenz è un giovane poeta preromantico e Sturm und Drang, già interessato dalla follia, che intraprende un viaggio per raggiungere Oberlin, pastore protestante e poeta lui stesso. Lenz attraversa a piedi i monti dell’Alsazia, in una corsa vertiginosa che è fuga da sé stesso. “Urgeva in lui qualcosa – scriva di lui Büchner –, cercava qualcosa come sogni perduti, ma nulla trovava”. Dipingere è per me inseguire l’irraggiungibile: l’opera non è mai compiuta, ma rimane testimonianza di un desiderio. In un’epoca di immagini prodotte industrialmente, il gesto pittorico conserva un carattere utopico come atto di resistenza poetica, un modo di creare senso attraverso l’unicità dell’esperienza. 

Il tuo lavoro oscilla tra la precisione del segno e l’evocazione dell’indefinito. Che ruolo hanno la poesia e la musica nel tuo dipingere?  
La poesia, che frequento da sempre, mi insegna a lasciare spazi vuoti, a suggerire piuttosto che nominare. I versi insegnano che l’immagine può insinuarsi nel non detto. La musica è struttura interiore: immagino le mie tele come pentagrammi su cui ogni pennellata è una nota ed ogni variazione di colore è un ritmo che pulsa. Così pittura, poesia e musica si fondono: la tela diventa uno spartito, il colore un verso, e il mio gesto diventa composizione sospesa fra suono e silenzio. 

Insegni all’Accademia di Belle Arti di Roma e hai esposto già in altri suoi musei ed istituzioni: che ruolo hai con la città eterna? 
Credo che la ricerca artistica debba nutrirsi della complessità culturale intesa come unità formata da moltitudini, capacità di cogliere collegamenti e riferimenti culturali crescendo in parallelo con lo studio e la conoscenza delle altre forme della comunicazione umana: la poesia, la musica colta, la letteratura, il teatro. Viviamo una realtà meticcia e dobbiamo rispondere con una comunicazione alta che sia in grado di essere compresa, ricca di spunti, e solo l’approfondimento e la curiosità possono restituire. In accademia cerco di trasmettere ciò ai miei studenti. Anche Roma è una realtà sempre più meticcia e complessa, non solo per la dimensione umana ma anche per la sua connessione con il tempo storico e lo spazio architettonico artistico; è come un puzzle, un insieme indisgiungibile, un corpo unico e metamorfico. Questa città è un organismo complesso, dove periferie e campagne conservano memoria. In Accademia invito a esplorare aree verdi, ruderi industriali, paesaggi marginali come frammenti di un paesaggio utopico. La mia arte si nutre di quei territori, restituisce senso alle tracce abbandonate. Il dialogo con la campagna è un motore creativo e di civile convivenza, è un modo per riattivare relazioni con la materia viva della metropoli. 
 
Nicola Davide Angerame

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Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame è filosofo, giornalista, curatore d'arte, critico della contemporaneità e organizzatore culturale. Dopo la Laurea in Filosofia Teoretica all'Università di Torino, sotto la guida di Gianni Vattimo con una tesi sul pensiero di Jean-Luc Nancy, inizia la collaborazione…

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