Morta Koyo Kouoh, curatrice della prossima Biennale. Il ricordo di Carolyn Christov-Bakargiev
Koyo Kouoh terminava sempre le sue e-mail con le parole “with grace and light” – con grazia e luce. L’ultima volta che ci siamo viste è stato un mese fa a Dallas, in Texas, dove abbiamo trascorso alcuni giorni insieme. Era lì per celebrare il premio Nasher Sculpture Award conferito alla sua amica, l’artista Otobong […]

Koyo Kouoh terminava sempre le sue e-mail con le parole “with grace and light” – con grazia e luce. L’ultima volta che ci siamo viste è stato un mese fa a Dallas, in Texas, dove abbiamo trascorso alcuni giorni insieme. Era lì per celebrare il premio Nasher Sculpture Award conferito alla sua amica, l’artista Otobong Nkanga. Otobong era un legame tra noi. Ogni volta che incontravo Koyo, le ricordavo che non l’avevo ascoltata quando, nel 2009, in qualità di curatorial agent per la mia edizione di dOCUMENTA (13), mi aveva suggerito di invitare Otobong alla mostra che si sarebbe aperta nel giugno del 2012. Non lo feci. E da allora, a ogni nostro incontro, le ripetevo che me ne ero pentita, perché poco dopo Otobong avrebbe sviluppato un corpus artistico straordinario. Era diventato un nostro piccolo rito: anche nel gennaio dello scorso anno, al Guggenheim di New York, dove facevamo entrambe parte della giuria per un premio, le rinnovai quelle scuse. Koyo rideva, accettava con grazia, sapeva che quella figura che entrambe ammiravamo – a cui io avevo poi dedicato tempo e lavoro anche dedicandole una personale al Castello di Rivoli – ci univa, e fu felice che l’avessi nominata per il premio in Texas.

A Dallas abbiamo trascorso tre giorni insieme, colmi di leggerezza e gioia, ma anche di momenti in cui eravamo solo noi due. Cercavo di aiutarla, per quanto possibile. Le chiedevo della Biennale di Venezia, di come stava andando, e le davo qualche consiglio: da donna più anziana a donna più giovane. Tra le ultime cose che mi ha detto, c’era questa frase: che un tempo non mi fidavo di lei, mentre ora sì – quasi alludendo al fatto che a Kassel, quando era più giovane, non l’avevo ascoltata abbastanza, mentre ora, da direttrice di museo a Cape Town e curatrice della Biennale, la rispettavo di più. Negai con fermezza, ma chissà.
La ricordo alle riunioni di documenta a Kassel, la documenta che aveva introdotto al mondo dell’arte Donna Haraway e il tema della co-evoluzione multispecie, tema importante in effetti per la sua Otobong. Ricordo Koyo tra tutti gli altri agenti – Chus Martínez, Joasia Krysa, René Gabri e Ayreen Anastas, Sofia Hernández, Raimundas Malašauskas, Pierre Huyghe, Andrea Viliani e altri. A volte si sedeva in un angolo, ma lo faceva sopra un bancone, in una posizione leggermente sopraelevata. Da lì, con grazia e autorevolezza, interveniva al momento giusto con pensieri al contempo diplomatici e profondi.
Ricordo le accoglienze che mi ha riservato più volte a Dakar, nello spazio di Raw Material Company – il suo luogo, come lei stessa lo definiva. Era la padrona di casa, circondata da molte persone, in uno spazio vivo: il café, la libreria, le sale con performance. Un luogo che emanava gioia e libertà, lontano dai centri asfissianti del potere del mondo dell’arte. A Kassel, accogliemmo il suo amato Issa Samb, che appendeva le sue opere agli alberi dell’Auepark.

Negli anni si è costruita tra noi una relazione non evidente agli altri, un po’ segreta. Sapeva che, anche se alla fine non fu scelta, io l’avevo nominata per l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence del Bard College, e ne fu grata. Lo capii da un suo abbraccio durante una cena alla Fondation Beyeler di Basilea, sempre in occasione di Otobong. Indossava una lunga cappa di velluto rosso con maestosa dignità. Era sempre elegantissima. Parlammo più volte di una possibile curatela per una sua mostra al Castello di Rivoli (Tracey Rose o When We Look At Us), ma la pandemia, la morte del Presidente Alfieri e i successivi tagli regionali cancellarono quei progetti.
È stata la storia di un’amicizia fatta di miei tentativi discreti di sostenerla, ostacolati da difficoltà a realizzare fino in fondo ciò che desideravamo. Ma qualcosa restava sempre: documenta, Otobong, Kader e altri artisti, una stima reciproca.
Quando nel 2022 documenta 15 finì nella bufera di accuse da parte di diversi settori tedeschi, cercai – come altri ex-direttori artistici della rassegna – di aiutare quell’amata istituzione, fino ad allora simbolo della più alta libertà artistica. Fui chiamata a far parte del gruppo incaricato di nominare i membri di una commissione, la quale avrebbe individuato il nuovo direttore artistico. In quella commissione proposi la partecipazione di Bracha Ettinger – artista, psicoanalista e teorica femminista – ritenendola capace di affrontare le contraddizioni del momento e di scegliere una persona giusta. Con Bracha parlammo a lungo di possibili candidati, e convenimmo che Koyo sarebbe stata una scelta eccellente.
Koyo fu invitata a candidarsi, ed era in pole position per la direzione, quando – per ragioni note – la commissione si sciolse e tutto ricominciò da capo. Koyo si era preparata, aveva studiato, riflettuto sull’arte e sul mondo, sulle urgenze da affrontare, su un progetto culturale che avrebbe potuto rispondervi. Nulla andò perduto però: quell’anno di lavoro le diede una chiarezza e una visione che, credo, abbiano convinto il Presidente Buttafuoco a nominarla curatrice della Biennale di Venezia. Le cose che facciamo non portano sempre i frutti desiderati, ma ne portano altri, inattesi.

A Dallas le chiesi della salute. Mi disse che ormai era guarita, fuori pericolo dal tumore che l’aveva colpita due anni prima. Ai primi di maggio 2024 aveva perso sua sorella per lo stesso male, e mi sembrò naturalmente ancora triste nel ricordare l’anniversario imminente. Al Nasher sorrideva, mostrava gioia, anche se avvertii in lei un’ombra di preoccupazione legata alle responsabilità del fundraising per la Biennale, che sentiva come suo compito. Il nostro mondo dell’arte è spietato, ipocrita, pieno di piccole ambizioni e schiamazzi di superficie.
Koyo avrebbe realizzato una documenta straordinaria, e una Biennale bellissima. Ma siamo in tempi duri, e l’abbiamo perduta. Quando, il 10 maggio, ho riacceso il cellulare dopo l’atterraggio a Berlino, un messaggio su WhatsApp di una collega mi ha informato della sua morte improvvisa. Il respiro mi mancò. Cancellai la cena prevista e sono andata al Bode Museum a vedere l’Angelus Novus di Paul Klee, l’originale monoprint prestato dal museo di Gerusalemme. Quadro che appartenne a Walter Benjamin dal giorno del suo compleanno, nel 1921, e che non lasciò mai: lo portò con sé in fuga dalla Germania e poi, una volta anche la Francia occupata, lo affidò a Bataille prima di fuggire nuovamente, ma lasciarci a Portbou.
Benjamin vedeva in quell’angelo l’emblema della Storia, impotente di fronte alle rovine del progresso cieco. Klee lo dipinse invece come un angelo artista, nuovo, nato dal trauma della Grande Guerra. Vedere l’Angelus Novus proprio il giorno in cui abbiamo perso Koyo ha avuto per me un significato profondo.

Massimiliano Tonelli mi ha chiesto lo stesso giorno di scrivere un ricordo di lei. Di solito sono restia a farlo, ma ho accettato. Gli ho detto che l’avrei fatto dopo una conferenza – sul tema della libertà artistica e della formazione della soggettività oggi nell’era dell’IA – che ho tenuto domenica 11 maggio, e che ho dedicato a Koyo.
A volte penso che le donne che appaiono forti, perfino arroganti, nascondano fragilità profonde, custodite per proteggersi dagli sciacalli del nostro mondo, per conservare grazia e leggerezza. Penso con speranza al nuovo Papa, matematico, e al compito che lo attende: mantenere grazia e umiltà in un mondo algoritmico di stolti e avidi.
Non so se Koyo fosse religiosa – non gliel’ho mai chiesto. Ho letto che era interessata al sufismo, ma non ne abbiamo mai parlato. La saluto, le auguro grazia e luce, e mi chiedo se, in quell’universo piegato di spazio-tempo, retto da computazioni che vanno ben oltre la nostra comprensione, potrò un giorno incontrarla di nuovo – e questa volta, ascoltarla davvero.
Carolyn Christov-Bakargiev
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