Cinque pesci nella Barcaccia del Bernini. Goffi tentativi d’arte pubblica a Roma

Un capolavoro del Barocco diventa ambientazione per un’opera contemporanea. A misurarsi con la fontana del Bernini in Piazza di Spagna non c’è una star internazionale, ma un artista romano che lancia un messaggio in difesa dell’ambiente. Opera non all’altezza.

Ci sono sfide che dovrebbero far tremare i polsi: a chi viene investito dall’onore di portarle a termine, e a chi si prende la responsabilità di sostenerle, di decidere chi e cosa, di individuare procedimenti, contenuti, strategie. Con la percezione chiara dei rischi e delle chance, allorquando si misurano la distanza e il peso della storia rispetto a un presente in divenire, tutto da interpretare. L’arte contemporanea, nel suo relazionarsi con l’antico, ha prodotto risultati interessanti, a volte potenti, in grado di vivificare quel passato – mai inerte – in cui esse stesse trovano fondamento. È così che l’opera continua a occupare il margine invisibile e fluido tra ciò che è e ciò che è stato.
C’è poi una maniera superficiale, svelta e poco accorta di condurre l’incontro tra la robustezza dei grandi capolavori e le freschezza delle forme e dei linguaggi attuali: è il solletico del purché si faccia, purché se ne parli – come ingenuamente si usa ripetere in fatto di marketing – trastullandosi nel ruolo di decisori politico-culturali, apparentemente sensibili alle ragioni della storia e a quelle della contemporaneità. Qualche volta, allora, sarebbe meglio lasciar stare.

La Barcaccia del Bernini a Roma

La Barcaccia del Bernini a Roma

LA BARCACCIA. RIPENSANDO UN’ICONA DI ROMA

A Roma, lo scorso 25 maggio, un intervento artistico ha (temporaneamente) modificato e riletto una tra le più iconiche sculture pubbliche della città. La fontana della Barcaccia, gioiello in travertino incastonato in piazza di Spagna, fu progettata nel 1626 da Pietro Bernini e ultimata quasi certamente dal più celebre figlio, Gian Lorenzo: gli elementi stilistici, accostabili al Barocco, ne farebbero il primo esempio dello sperimentalismo berniniano e delle innovazioni che il giovane avrebbe perseguito in termini di sinuosità, di sensibilità naturalistica, di attrazione per le curve, le morfologie complesse, le visioni  scenografiche.
Il riferimento iconografico è più o meno acclarato: le antiche imbarcazioni romane, che un tempo popolavano il Tevere, servivano soprattutto a caricare e scaricare le derrate alimentari. Corte e basse, erano adatte a far rotolare cisterne e botti sul lungofiume. “Barcacce”, appunto, tanto utili quanto sgraziate. Quella dei Bernini fu costruita a Trinità dei Monti, quando ancora non esisteva la celeberrima scalinata. A commissionarla all’affermata bottega di scultori napoletani fu Papa Urbano VIII: il responsabile della commessa era dunque Pietro, il capofamiglia, ma gran parte della critica, vista la portata rivoluzionaria del manufatto, concorda nell’attribuire al figlio la vera paternità. Concepita come una barca ovale semisommersa dall’acqua, ha appunto i bordi bassi con la prua e la poppa rialzate: la “barcaccia”, si è anche supposto, era un’imbarcazione in avaria, sul punto di affondare. Si trattò in ogni caso del primo esempio di fontana pubblica concepita come vera e propria scultura, non più soggetta al rigore geometrico delle tradizionali vasche con funzione civica.

La Fontana della Barcaccia nella Piazza della Trinità de' Monti in un'incisione di Giovan Battista Falda

La Fontana della Barcaccia nella Piazza della Trinità de’ Monti in un’incisione di Giovan Battista Falda

I PESCI DI PATANÈ. UN’OPERA PER L’AMBIENTE

Oggi, e per tutto il mese di giugno, nell’acqua di questo audace marmo secentesco galleggiano cinque pesci. Finti, s’intende. Cinque oggetti in ceramica policroma, adagiati sul fondo in modo casuale, a volerne simulare il movimento spontaneo. Gli ultimi cinque pesci del mare s’intitola l’opera, dalla dichiarata connotazione ecologica, firmata dall’artista Giangaetano Patanè. Romano, classe 1968, scultore e pittore figurativo con una tensione esplicita verso l’onirico e l’astrazione simbolica, Patanè ha messo insieme nel corso della sua carriera alcune fortunate occasioni espositive, con delle personali organizzate tra istituti di cultura all’estero e musei capitolini (Chiostro del Bramante, Gnam, Vittoriano), restando però in una dimensione non di primo piano rispetto al sistema dell’arte ufficiale. Che in sé potrebbe non essere un problema. Ma è una ricerca, la sua, che ci pare resti confinata nello spazio di una certa ingenuità espressiva, accademica, lontana dalle spinte più innovative e rutilanti dell’indagine contemporanea.
L’opera di Piazza di Spagna ne è conferma piena. Un lavoro minuto, non a fuoco e non bilanciato, totalmente soverchiato dalla magniloquenza dell’opera del Bernini (primo rischio che si corre quando ci si misura con l’antico e con i giganti della storia). Un lavoro che punta alla denuncia ambientalista, sul piano dei contenuti, e che, in fatto di linguaggio, si trova a (non) rapportarsi con le volumetrie e le simbologie di un’autentica icona. Finendo per appiattirsi e perderesi nella banalità di un messaggio scolastico e nella fragilità di queste sculturine naturalistiche, poggiate lì, a caso, come in un pretesto decorativo. Nessuna forza di segno e di senso viene così elaborata a favore del pubblico e nel rispetto (per opposizione, per continuità, per straniamento o per ribaltamento) del monumento stesso. Un’opera prodotta oggi, ma da cui non emanano, in senso profondo, né consapevolezza storica, né l’eco di una sensibilità contemporanea.
E allora, cosa c’entra il fondo di una fontana con l’immagine degli oceani devastati dalla plastica e dagli idrocarburi? È pur sempre acqua, si dirà. Una metafora. Che però resta ingenua, sovrapponibile a una trovata. Inoltre la Barcaccia affonda, come sta per affondare il Pianeta: quando il gioco delle metafore prosegue fino all’apoteosi dell’ovvio. E così per il significato, che l’autore, mosso certo da nobili propositi, definisce “un grido di allarme e di dolore per l’Eco-sistema ferito. Vedere i pesci è come vedere le vittime, per essere così investiti dalla responsabilità di ciò che sta accadendo al nostro pianeta oggi e non domani“. Siamo ancora nel mezzo della pura didascalia, con la rappresentazione plastica e retorica di una manciata di pesci sopravvissuti o moribondi, chiamati a illustrarci la catastrofe del mare, come nel più semplice dei manuali.

Un dettaglio dell'opera di Patanè

Un dettaglio dell’opera di Patanè

ROMA, ARTE PUBBLICA E MESSAGGI DIDATTICI

Qualcuno dirà: se i giovani di Ultima Generazione prendono di mira sculture, tele e palazzi storici, sporcandoli di vernice (lavabile) in segno di protesta contro il sistema che tutela l’arte ma è sordo alle emergenze dell’ecosistema, almeno qui il tema è affrontato in modo pacifico e in armonia con il patrimonio culturale. Se quelli scelgono la via pretestuosa dell’assedio, in questo caso si punta sul valore del monumento, persino integrandosi a esso.
Bastasse questo. D’accordo che l’impegno ecologico e sociale è per l’arte territorio consueto, sempre più battuto – la storia del ‘900 e quella recente annoverano un’infinità di casi – e va bene la scelta della via conciliante, in cui beni culturali e natura stringano un ideale sodalizio. Si può fare in molti modi e attraverso molti strumenti. Ma purché ci siano forza, incisività, potenza visiva e concettuale. E purché l’insopportabile escamotage del “messaggio” faccia posto all’accadimento, al farsi opera dell’opera, al suo essere segno attivo, calato nella storia, sospeso tra il particolare e l’universale. Spogliato dunque di ogni sudditanza rispetto al testo didascalico, al diktat etico, al compitino politicamente corretto, allo slogan elementare, al giochino della sensibilizzazione collettiva. Non è roba che spetta all’arte, chiamata semmai (cosa ben più difficile) a produrre pensiero, visioni, imprevisti, sintesi poetiche, smottamenti e spostamenti. Che le battaglie civili siano ormai accessori instagrammabili a una dimensione, funzionali allo storytelling dei social influencer, è un fatto che dovrebbe spingerci ulteriormente a preservare la pratica artistica dal rischio di tale banalizzazione. Ma così non è.

Didascalia apposta accanto all'opera di Patanè installata nella Barcaccia

Didascalia apposta accanto all’opera di Patanè installata nella Barcaccia

LE SCELTE DI ROMA CAPITALE

Ora, non è certo al buon Patanè che si può fare una colpa per l’arditezza della sfida o per il risultato che, secondo il nostro parziale e soggettivo parere, risulta poco significativo. Un artista si mette in gioco, quando valuta che sia il caso e con i mezzi che ha, convincendo taluni e non altri. Ma davvero si stenta a credere che un’amministrazione pubblica – in questo caso Roma Capitale, con l’Assessorato alla Cultura e la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali – decida di affrontare con tale leggerezza la complessità di un capolavoro storico. E ci si chiede secondo quali criteri si affidi a questo o a quell’artista uno dei più noti monumenti della Capitale, senza che siano stati predisposti un bando, una dotazione economica opportuna, una commissione di curatori, critici, storici dell’arte di livello. Senza che si sia valutato di invitare artisti di calibro internazionale, figure di altissimo profilo, gente che ha esposto nei più grandi musei del mondo, selezionata per biennali ed eventi di primo piano, acquisita nelle migliori collezioni pubbliche e private.
Ed è così che, sul tema dei metodi e degli investimenti, ci ha risposto l’Ufficio Comunicazione della Sovrintendenza: “Il progetto artistico è stato ideato e prodotto dall’artista stesso, che lo ha proposto a Roma Capitale per la collocazione in una fontana monumentale. Il progetto è stato sottoposto alle valutazioni degli uffici competenti e ritenuto compatibile con le caratteristiche del monumento e capace di valorizzarlo, veicolando un messaggio positivo. Il costo a carico dell’amministrazione è consistito nella realizzazione della targa informativa”.
Nessun esborso di denaro pubblico, dunque, in questo caso. Ma resta un fatto: mettere le mani su un’opera d’arte pubblica importante implica delle responsabilità alte e richiede un’esperienza consolidata e comprovata. Il fallimento è sempre messo in conto, ma nei casi migliori ne sarà valsa la pena, laddove si avvertano ricerca, qualità, ascolto, consapevolezza. Invece il modus operandi è a volte lo stesso di quando si progetta, pur colpevolmente, una piccola scultura per una rotonda di provincia.
Intanto, se si guarda alle (legittime) dinamiche del consenso, non sono poca cosa il plauso del pubblico generico, la curiosità dei passanti, le segnalazioni sulla cronaca locale, la soddisfazione di una rete di figure territoriali: per un’amministrazione locale è grasso che cola. E poi una star costa cifre importanti, così come intercettare del mecenatismo serio, che possa farvi fronte, costa fatica, strategia, perseveranza. In Italia, non certo solo a Roma, una modalità che ancora stenta ad ingranare. Orizzonti brevi e soluzioni facili, per risultati mediocri? L’arte resta altrove, sempre, nello spazio sospeso tra il futuro e la storia, e in quello scarto vivo che l’opera incarna quando abita davvero il proprio tempo e insieme se ne stacca, contribuendo alla sua rigenerazione.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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