L’arte come acrobazia. La mostra di Felice Levini a Roma

Il poeta Claudio Damiani racconta la mostra di Felice Levini al Museo Carlo Bilotti di Roma. Intrecciando filosofia e una cruda consapevolezza del tempo presente

La nuova mostra di Felice Levini (Roma, 1956) al Museo Carlo Bilotti ‒ Aranciera di Villa Borghese presenta una sorta di auto-antologia, ironicamente auto-museificante. È un museo? E io mi dispongo come in un museo, dice Levini, didatticamente, distaccatamente. Non criticando, come si faceva, ma con l’ironia lieve, e sorniona, che è sempre di Levini. Che non è l’ironia ludica del postmoderno, ma è un’ironia sofferta, che soffre. Cioè sopporta. Si carica su, e va avanti.
Lo vediamo dalla statua del cavallo a grandezza naturale che appare subito appena entriamo, così inespressivo, come le statuette di plastica sulle bancarelle per i turisti, eppure che soffre tutte le guerre che ha dovuto combattere, rappresentate sotto i suoi zoccoli in un grande quadrato-scacchiera, l’animale-uomo che dà il proprio sangue (altro che bianco, è un cavallo di sangue) in questo mondo solo apparentemente di pace, in realtà guerra quotidiana continua.

Felice Levini, Mano, 2019, olio su tela e grafite, 2,45x1,75 m

Felice Levini, Mano, 2019, olio su tela e grafite, 2,45×1,75 m

LE OPERE DI LEVINI

Il pannello critico all’ingresso riprende il testo in catalogo di Costantino D’Orazio, il quale dice che non c’è inquietudine in Levini, e la sua paura del vuoto è solo una “paura del vuoto di senso”. Io penso invece, guardando queste opere, ma pensando anche a tutta l’opera di Levini che conosco fin dall’inizio (facemmo insieme lo spazio Sant’Agata de’ Goti nel ’78, insieme a Giuseppe Salvatori e altri giovanissimi artisti e scrittori) che quell’inquietudine c’è e Levini la prende pure in giro, ma dietro il suo sorriso amaro c’è il dolore e il sangue e l’angoscia più nera e insopportabile di esseri senza più appigli appesi nell’abisso, o forse un solo appiglio sempre più sottile, che sta per rompersi definitivamente.
Davanti al cavallo sulla scacchiera di tutte le guerre c’è un lungo pannello di 10 metri, pennarello su carta, dal titolo Progettare il caos, del 2020, primo anno di pandemia. È come se, nell’isolamento del lockdown, Levini ricapitolasse tutto il suo lavoro, montasse in una composizione tutta la sua vita, come un messaggio nella bottiglia, srotolato e ingrandito, per i posteri (se posteri ci saranno), o da lanciare nello spazio per gli extraterrestri, come il messaggio SETI inviato nello spazio nel 1974 con le figurine dell’uomo, del sistema solare, del DNA ecc. Se anche solo prendiamo i testi, le frasi che sono poste a cornice del grande rettangolo, ritroviamo l’esistenza come guerra, anche e forse ancor più in un mondo come il nostro apparentemente senza guerra (Le tigri vanno dappertutto ma non sono da nessuna parte), l’essere tutti noi in un tritacarne che alla fine ci riduce in polvere (Il mulino dell’esistenza che macina fino fino e riduce tutto in polvere), e in uno spavento infinito, insopportabile (Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine), che ci impedisce di vivere (La paura della morte ci impedisce di vivere non di morire).

Felice Levini, Zeus, 2018, tecnica mista su carta, 73x103 cm

Felice Levini, Zeus, 2018, tecnica mista su carta, 73×103 cm

I TEMI E I PERSONAGGI DI LEVINI

Ecco, proprio quest’ultima frase è il centro dell’opera di Levini. Tra le sue immagini ricorrenti c’è l’acrobata, qui in grande in questo pannello mentre esegue un salto “mortale”, ma poi anche la figurina di se stesso che si lancia nel vuoto (alla De Dominicis), o i paracadutisti in cerchio sospesi nel vuoto; qui non vedo trapezisti e non so se Levini li abbia mai disegnati, però mi viene in mente quello che diceva il grande Emanuele Severino: che noi oggi, nel preciso momento storico che stiamo vivendo, siamo come il trapezista che ha appena lasciato un trapezio ma non ha ancora afferrato l’altro, e sta sospeso nel vuoto. Il trapezio precedente a cui eravamo attaccati, ci spiega Severino, erano le fedi religiose e le verità epistemiche, ossia i fondamenti filosofici, che non abbiamo più. E quindi in questo momento davanti alla morte, al nulla in cui presto ognuno di noi sarà, non abbiamo niente da opporre, nessun rimedio, neanche quei rimedi molto palliativi delle ideologie, surrogati delle fedi, speranze di rivoluzioni, progressismi ecc. ecc., che fino a poco tempo fa, fino diciamo al postmoderno, ci hanno dato un qualche refrigerio. Niente, non c’è più niente.
L’altro trapezio, nel buio grande della volta del tendone, sta per arrivare, per essere afferrato, sentiamo forse il sibilo impercettibile della sua oscillazione pendolare, ma non è ancora arrivato.
Forse, dice Levini, c’è un filo sottile e invisibile che ci tiene, quel filo cui alludevamo all’inizio, che diventa sempre più sottile, che è l’arte. Quel filo che sembra tenere appese e in equilibrio tutte le sue figure. Formelle ritagliabili e replicabili come quelle di una delle ultime opere esposte, al piano di sopra, Zeus, progetto in cartoncino, del 2017, dove ritroviamo, pendoli penzolanti da una casa-orologio, il tuffatore, il teschio, il cavallo, il profilo di sé stesso ecc. E anche, ma ormai è troppo tardi, la figura dell’impiccato.

Claudio Damiani

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Claudio Damiani

Claudio Damiani

Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Roma dall'infanzia. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo,…

Scopri di più