La Terra secondo Arcangelo: l’artista si racconta attraverso 40 anni di carriera

“Sono un uomo profondamente radicato nella storia del sud, ma di quel sud del mondo”. Ricordi, progetti e pensieri: in occasione della doppia mostra al MA*GA di Gallarate e al Terminal 1 di Malpensa, il pittore Arcangelo si racconta in questa lunga intervista.

La sua è una pittura radicale, cruda, fatta di bianchi, neri, rossi e ocra. Segni materici tracciati sulle tele raccontando paesaggi, orizzonti, suggestioni incastonate nella memoria. Arcangelo Esposito (Avellino, 1956) da sempre percorre una strada indipendente avulsa da canoni stilistici prestabiliti, tessendo una storia che è la fusione di tante vicende vissute in prima linea. L’Oriente, l’Africa, l’Asia, sono le tante mete lontane che hanno influenzato il suo lavoro, facendolo tuttavia sempre tornare “nel suo Sud”: un attaccamento ancestrale alle proprie origini che non smette di essere particolare e universale. Una lunga narrazione artistica continuativa e mai incoerente, che oggi si rivela al pubblico in una doppia mostra. Le mie mani toccano la terra, a cura di Emma Zanella, si divide tra una retrospettiva al MA*GA di Gallarate e un progetto espositivo al Terminal 1 di Malpensa. Dal ciclo degli esordi Terra mia degli anni ottanta ai successivi Pianeti, i Misteri, i Tappeti persiani fino alle ultime grandi composizioni nate dalla suggestione e dalla contaminazione con le terre africane, la carriera dell’artista viene illustrata in tutti i suoi momenti chiave. Ne abbiamo parlato proprio con Arcangelo…

Il suo lavoro è cominciato pressappoco in concomitanza con il boom della Transavanguardia, eppure non ha mai aderito a questo movimento. Cosa della Transavanguardia non poteva essere in linea con la sua pratica, tanto da preferire una strada da “solitario”?
Il termine “solitario” non mi è mai piaciuto seppur mi sia stato affibbiato diverse volte; in realtà ho sempre pensato di esser all’opposizione. Sono un pittore contro la cattiva pittura e contro chi non legge correttamente l’Arte e la Pittura in tutte le loro molteplici variazioni e sfumature. Non mi è mai interessato dover scegliere tra vicinanza e lontananza dalla Transavanguardia: è un quesito che non mi sono mai posto.

Qual è la sua posizione, allora?
La mia posizione è sempre stata chiara, e lo è ancor di più se si osserva attentamente la mia storia fin dagli anni ’80 e le mie frequentazioni artistiche e le gallerie con cui ho lavorato. Ho avuto la fortuna di lavorare fin da subito con gallerie tedesche e svizzere ben strutturate con un ascolto verso l’artista e l’opera molto speciale; attraverso loro ho fatto grandi mostre anche in importanti musei lontani dall’Italia affiancato da un atteggiamento, anche da parte dei curatori, disponibile alla comprensione. Sono stato molto viziato da questa grande professionalità e avevo solo 29 anni. 

Può raccontarci qualche vicenda a riguardo?
Le racconto di quando nell’84, per preparare una mostra alla Galleria Buchmann di Basilea, fui invitato presso un castello sulle montagne svizzere. Nel castello vicino aveva lavorato Mario Merz per una mostra, organizzata dalla stessa galleria, con le sue opere pittoriche Animali preistorici. Le dico questo perché erano proprio gli anni in cui si parlava di arte, ma soprattutto di pittura a tutto tondo, e lo stesso Merz ci ragionava su collegandosi al linguaggio pittorico con queste grandi opere.

Come mai?
Eravamo tutti concentrati sulla pittura, affascinante e costantemente presente nelle nostre discussioni. Questo mio ricordo per spiegarle perché non abbia mai sentito il dover scegliere vicinanza/lontananza dalla Transavanguardia. Semplicemente un quesito che non mi sono mai posto.

Ci dica di più, allora.
La mia pittura si differenziava fortemente dalle loro opere, sia per la metodologia che per il senso che le attribuivo usando mani e tecniche miste come il frottage e riprendendo le linee delle mie montagne e dei miei paesaggi con sovrapposizioni di neri e di grigi, ma sempre provenienti dal concetto di “Terra”.

Quali sono stati, a proposito, i vantaggi nel lavorare da solo, senza etichette?
La critica italiana, ma soprattutto svizzera e tedesca, ha sempre sentito la mia vicinanza con l’Arte Povera per la mia attitudine ad una pittura dura e poco ammiccante. Tele organizzate per sovrapposizioni di neri che parlavano del paesaggio del mio sud, e per i materiali da me utilizzati, come ceneri e carboni; una pittura “secca” portata agli estremi, molto lontana dalle opere pittoriche di quegli anni. Io non sono mai stato solo, la mia scelta è stata condivisa e compresa da tanti e ancora oggi, dopo tanti anni di mostre, rifarei esattamente lo stesso percorso.

Chi sono i suoi maestri o i suoi modelli?
Non ho maestri, ma ho tanti ricordi di amici artisti, di mostre e di momenti condivisi. Ma anche collettive personalmente organizzate – per esempio, due edizioni Leoncart al Leoncavallo di Milano nei primi anni ’90 – chiamando i miei amici artisti per intervenire con la loro arte laddove era necessario dare un segnale forte, anche di impegno civile. Ho organizzato eventi anche “nel mio sud”, in piccole realtà rurali dove desideravo che l’arte fosse manifestata in modo “eclatante”. E allora invitavo artisti come Castellani, Zorio e tanti altri.

Lei lavora per cicli pittorici che durano anche tanti anni. Perché nasce un ciclo e in base a cosa si decide il suo termine?
Un ciclo nasce perché ho una storia importante da raccontare, vissuta e sentita nel profondo. Termina, invece, quando sento di aver trasferito tutto, immagini, sensazioni, impulsività. Chiudo senza darmi nessuna possibilità di continuare per il compiacimento di fare arte.

Ci sono dei fattori che ritornano con costanza nelle sue opere?
Ognuno dei miei cicli nasce per una esigenza narrativa che esprimo con una modalità pittorica, caratteristiche e tempistiche totalmente diverse l’uno dall’altro. Non dimenticando che oltre ad essere un pittore sono anche scultore, lavorando con bronzi, cere, ceramica. La costante del mio lavoro sono io, la mia storia di vita e il mio segno, che trasporto sempre da un ciclo all’altro. È per questo che il mio lavoro, seppur nella diversità, è riconoscibile nel tempo, ciclo dopo ciclo. 

La mostra Le mie mani toccano la terra, allestita alla all’Aeroporto Internazionale di Malpensa – Terminal 1, ha come pubblico i viaggiatori, coloro che, arrivando da qualsiasi paese estero, atterrano a Milano e si confrontano con le opere allestite nelle sale della Lounge, anch’esse frutto di numerosi viaggi passati. Che effetto le fa questa circostanza, diversa dal contesto museale?
Trovo il tutto molto stimolante. Ma non credo che un pubblico museale sia necessariamente diverso se non perché sceglie di entrare a vedere una mostra; in un aeroporto il pubblico è a contatto con le opere in modo diverso e in un momento di transito, ma ogni luogo è abilitato per mostrare arte ed è ovvio che l’atmosfera e la tensione, delle stesse opere, hanno nel loro insieme un assetto completamente diverso. Si, le mie opere nascono dal mio racconto di viaggiatore di terre a volte vissute altre anche solo sognate e forse questo verrà inteso da coloro che sosterranno in queste sale a Malpensa. L’effetto, le assicuro, è molto sorprendente, in positivo.

La sua ricerca è fondata sulle radici e sul senso di appartenenza. Allo stesso tempo lei ha viaggiato spessissimo in terre lontane anche dall’Occidente, traendone numerose suggestioni. Come si conciliano questi due aspetti?
Le mie radici solide e il senso di totale apparenza alla mia terra mi hanno reso libero di andare oltre e scoprire tutte le terre che per empatia ho scelto di visitare e raccontare. Le mie opere parlano del mio personale “aggancio” a cose come già vissute attraverso atmosfere vicine per colori, tradizioni, canti, leggende con la mia terra di appartenenza. Sono un uomo profondamente radicato nella storia del sud, ma di quel sud del mondo.

A proposito di Asia, Africa, Medioriente: qual è la cosa più importante che fa quando arriva in un paese straniero? In che modo luoghi così diversi hanno condizionato la sua pratica pittorica?
Osservo, e non è poi automatico o scontato che ciò che vedo e che vivo si tramuti in un lavoro; a volte immagini e pensieri e sensazioni ritornano improvvisamente dopo anni. Credo che, più che condizionare il mio lavoro, i miei viaggi rappresentino la contemporaneità del mio personale racconto. È la vita che mi interessa e che ascolto, la diversità del suo manifestarsi è per me spunto incredibile per la mia vita di uomo e di artista.

Delle origini, in qualche modo, tratta anche la sua ultima serie, Fiori di croco, che si ispira a un antico fiore greco-romano che spuntava sulla via Appia, la strada che passa anche da Avellino, sua terra di origine.
Sento di essere come colui che controllava e operava affinché la via Appia fosse pulita e sempre in ordine per i viandanti. Sento di essere come un Curatores, colui che cura, che si prende cura di un’asse che collegava province eccellenti della nostra terra. Il fiore di croco è un pretesto figurale, non figurativo, per questo mio nuovo racconto resta sempre e comunque teso sulle mie radici.

La mostra allestita al MA*GA di Gallarate rappresenta un’ampia retrospettiva dei momenti più importanti della sua produzione, a partire dagli anni ’80. Facendosi un auspicio, cosa vorrebbe restasse più impresso al pubblico?
È molto difficile rispondere a questa domanda. Ma spero si possa leggere la continuità di un lavoro, seppur nelle sue molteplici differenze, e la mia libertà in questo.

– Giulia Ronchi

Arcangelo. Le mie mani toccano la terra

Fino al 1 marzo 2020
MA*GA

Fino al 10 marzo 2020
SEA Terminal 1 Sale ViaMilano Lounge

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Giulia Ronchi

Giulia Ronchi

Giulia Ronchi è nata a Pesaro nel 1991. È laureata in Scienze dei Beni Culturali all’Università Cattolica di Milano e in Visual Cultures e Pratiche curatoriali presso l’Accademia di Brera. È stata tra i fondatori del gruppo curatoriale OUT44, organizzando…

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