Coreografare Mapplethorpe. A Napoli

Al Museo Madre di Napoli un’indagine sui legami tra la pratica fotografica di Robert Mapplethorpe e il linguaggio performativo. Mescolando gesto e fisicità.

La mostra allestita al Museo Madre di Napoli rilegge l’opera di Robert Mapplethorpe (New York, 1946 ‒ Boston, 1989) usando la lente della performatività. E riscuotendo, fin dai primi giorni di apertura, il plauso di un pubblico trasversale. Ne abbiamo parlato con i curatori, Laura Valente e Andrea Viliani.

Realizzare una mostra sugli aspetti “coreografici” della fotografia di Mapplethorpe evidenzia una rilettura non convenzionale di una poetica complessa. Da dove deriva questa scelta?
Andrea Viliani: Innanzitutto dalle opere di Mapplethorpe. Fin dal suo titolo, Coreografia per una mostra mette in scena l’intuizione che la pratica fotografica di Mapplethorpe abbia un’intima matrice performativa. Ne mette quindi in scena il desiderio di dare una rappresentazione all’erotismo dei sensi o alla vibrazione intellettuale dei soggetti fotografati che rifiuti l’impersonale e documentaria staticità dell’immagine fotografica. Questo “metodo” ipoteticamente performativo si definisce all’incontro fra l’eterodossia anche scioccante del soggetto contemporaneo – come, fra i più controversi, i modelli S&M del Portfolio X – e quel desiderio di armonia ed equilibro, composizione e controllo, che l’artista stesso definì “perfezione nella forma”.
Laura Valente: Le opere di Mapplethorpe non erano mai state poste a confronto con la loro evidente componente performativa. La “danza” che abbiamo proposto fra opere statiche e azioni dal vivo delinea quindi un’esperienza conoscitiva inedita, che ci induce a cogliere la vitalità reclamata dai corpi ritratti, l’evocazione mobile dei molteplici rinvii alla scultura e alla pittura, il trasporto sensuale e immediato suggerito dalla ricerca costante di una proporzione. Sono caratteristiche, queste, che si accordano anche con la rigorosa disciplina fisica e con le evoluzioni dinamiche proprie della danza.

Robert Mapplethorpe, White Gauze, 1984 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by Permission

Robert Mapplethorpe, White Gauze, 1984 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by Permission

Il gesto performativo è in qualche modo connaturato a quello fotografico. Su quali elementi vi siete concentrati per far emergere la performatività dagli scatti di Mapplethorpe?
L. V.: Il nostro obiettivo era coniugare il dispositivo espositivo con quello coreografico, fondendoli. Per questo abbiamo coinvolto, quale logico acme di questo metodo di ricerca e di lavoro, coreografi contemporanei come Olivier Dubois, artisti visivi come Vadim Stein, Matteo Levaggi e Samantha Stella, e altri, che per tutta la durata della mostra realizzeranno interventi site specific, ampliando e approfondendo la prospettiva con cui il pubblico si avvicina alla ricerca di questo artista. A ispirare gli autori e interpreti delle performance è una rigorosa attenzione all’estetica e alla composizione delle fotografie di Mapplethorpe: il richiamo ai canoni dell’arte (neo)classica; l’abbattimento fra generi e identità sessuali; il continuo concentrarsi sul contrasto bianco-nero; la fragilità (se non l’inesistenza) del confine fra dolore e piacere; il seducente glamour proprio della scena culturale newyorchese, di cui Mapplethorpe fu negli Anni Settanta e Ottanta tra i massimi testimoni, ma mescolata a un gioco di rimandi a una città come Napoli ritratta, anche dall’artista (che vi giunge nel 1984 con il gallerista Lucio Amelio), nel suo perenne scomporsi e ricomporsi, tra vita e morte.

La logica della messa in scena e della coreografia innerva la mostra. Eppure il senso di immediatezza è una delle peculiarità degli scatti di Mapplethorpe. Nelle sue opere, dove si colloca il punto di equilibrio fra questi due ambiti?
A. V.: Forse nel fatto di essere realizzate nello studio stesso dell’artista, spazio-tempo della conciliazione e della sublimazione critica e formale. Queste immagini non erano documenti estemporanei, scatti dal vivo, ma ricreazioni meditate di esperienze immediate. Le riprese fotografiche avvenivano prevalentemente nell’intimità di un set, dove Mapplethorpe predisponeva sfondi ed elementi scenografici, insieme a una rigorosa regia delle luci, fino a depurare la contemporaneità o identità del soggetto da ogni traccia di cronaca o da ogni sospetto di improvvisazione. L’immagine risultante rivela così molteplici echi alla statuaria antica, al disegno e alla pittura rinascimentale, alle arti applicate o alle ricerche pittoriche e plastiche dal neoclassicismo al romanticismo, fra XVIII e XIX secolo. Per ricercare e affermare le radici di questo dialogo “performativo” anche con la storia dell’arte, il percorso della mostra si riplasma in un museo ipotetico che attraversa il suo stesso statuto, la cui collezione è stata curata con il Museo Archeologico Nazionale di Napoli e il Museo e Real Bosco di Capodimonte.

La mostra non è soltanto accompagnata da un programma di performance ma è anche ‒ almeno in parte ‒ allestita come una macchina scenica. Ci raccontate il programma e la scelta allestitiva?
A. V.: Nel concetto e nella struttura di questa mostra l’impianto performativo è sviluppato come un possibile confronto fra l’azione del “fotografare” in studio (nell’implicazione autore/soggetto/spettatore) e del “performare” sulla scena (nell’analoga implicazione performer/coreografo/pubblico). Questa “coreografia” espositiva si articola in tre sezioni fra loro connesse. Nella sala d’ingresso e nelle due sale attigue, come in un’Ouverture tesa nel gioco di sguardi fra le due “muse” mapplethorpiane, Patti Smith e Samuel Wagstaff Jr., lo spazio-tempo del museo evoca quello del teatro, in cui si può accedere da ambo i lati come in una struttura circolare. A seguire il pubblico è introdotto direttamente sul “palcoscenico” – fra ballerini, atleti, bodybuilder, modelle e modelli.

Robert Mapplethorpe, Thomas And Dovanna, 1986 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by Permission

Robert Mapplethorpe, Thomas And Dovanna, 1986 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by Permission

E proseguendo?
A. V.: A destra e sinistra della sala centrale,il visitatore scende in una potenziale “platea”, in cui decine di ritratti non solo ci restituiscono uno straordinario diario personale della vita, degli affetti, delle amicizie, degli incontri, delle collaborazioni e delle commissioni dell’artista, ma al contempo ricostruiscono un ritratto collettivo della società fra gli Anni Settanta e Ottanta, destinato a completarsi con lo sguardo dei visitatori della mostra. La sala centrale ruota infine intorno al tema dell’autoritratto. Coperta con un tappeto rosso per danzatori, la sala si trasforma in un vero e proprio “teatro” tridimensionale, in cui sono presentate le performance dal vivo. Completano questa terza sezione due sale attigue: l’(Un)Dressing Room, un camerino dove i performer si preparano per le loro esibizioni e che ospita alcune immagini che ci introducono nella dinamica dello studio dell’artista, e la X(Dark) Room, in cui sono esposte opere più “segrete” a soggetto erotico, fra cui una selezione del famoso, e più volte censurato nella storiografia espositiva dell’autore, Portfolio X.

Il famigerato Portfolio X, che raramente viene esposto in luoghi istituzionali e sul quale ha scritto pagine memorabili David Hickey. Perché la scelta di esporlo? Vi attendete reazioni “forti”, visto il clima di generale conservatorismo?
L. V.: Mapplethorpe è il primo a documentare fotograficamente, nella scena underground newyorchese, azioni rituali dei locali BDSM. Le immagini realizzate in questo periodo saranno il soggetto di due mostre inaugurate il 5 febbraio 1977 in due diverse gallerie newyorchesi, entrambe intitolate Pictures: una raccolta di ritratti alla Holly Solomon Gallery e, nella galleria The Kitchen, la presentazione delle opere che comporranno, nel 1978, il Portfolio X.
A testimonianza di quanto questo artista suggerisse la naturalezza della coesistenza fra opposti immaginari. Nello stesso anno Mapplethorpe compone inoltre il Portfolio Y, raccolta di soggetti floreali e arborei che, nella combinazione delle immagini, richiamano in realtà organi sessuali, mettendo nuovamente in scacco la norma espositiva e le aspettative, o meglio i preconcetti, del pubblico.  Museo e pubblico hanno oggi non solo la possibilità, ma il dovere, di cogliere quell’invito alla libertà di espressione e di rappresentazione. Oggi, come allora, restano due alternative: ignoranza e censura o libertà nel confronto, pensiero autonomo.
A. V.: Non solo il Portfolio X, ma anche le immagini ambigue, ermafrodite di Lisa Lyon, fra molte altre, suggeriscono ed esaltano una dimensione conoscitiva che ci piacerebbe definire tanto “omo-erotica” quanto “omo-concettuale”. Una stasi nel movimento, una pausa nel caos, un brivido di consapevolezza, un’epifania nell’amplesso. Se le immagini erotiche di Mapplethorpe fossero scandalose, lo dovrebbe essere anche Giotto che disegna un cerchio perfetto su una roccia, o Brunelleschi che inizia a sperimentare la prospettiva lineare e Leonardo che ripropone l’Homo Quadratus vitruviano. È solo l’inizio, in ognuno di questi casi, di una liberazione dell’immagine, l’intuizione e la sperimentazione delle sue infinite potenzialità di rappresentare l’umano.

Marco Enrico Giacomelli e Arianna Testino

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #14

Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

Scopri di più