A che punto è la pittura (figurativa)? Intervista a Demetrio Paparoni

Sta per inaugurare “Le nuove frontiere della pittura” alla Fondazione Stelline di Milano. Ma quali sono le nuove frontiere e a che punto è la pittura? Lo abbiamo chiesto a Demetrio Paparoni, curatore della mostra.

La morte dell’arte è stata annunciata svariate volte. L’ultimo a farlo è stato Francesco Bonami che nel suo ultimo libro ci dice che il periodo che va dal cesso di Duchamp a quello di Cattelan segna l’inizio e la fine dell’arte contemporanea. Come a dire che siamo di fronte a una nuova stagione, a un’arte contemporanea 2.0, così come è avvenuto in passato col Rinascimento, l’Illuminismo o col Barocco. La pittura però continua a godere di ottima salute, anche da un punto di vista commerciale. Non a caso, la maggior parte dei lotti record alle aste rimangono i dipinti.
Ma quali sono gli artisti contemporanei che hanno generato innovazione o stanno “innovando” in ambito pittorico? Quali gli Schnabel o i Kiefer di domani? Ha ancora senso oggi differenziare la pittura figurativa da quella astratta? Lo abbiamo chiesto a Demetrio Paparoni, curatore di una mostra dal titolo impegnativo, Le nuove frontiere della pittura, che raccoglie oltre 30 opere di grande formato di oltre 30 artisti provenienti da 17 Paesi. Una mostra che, essendo per sua natura una ricognizione e quindi rischiosamente “parziale”, farà probabilmente discutere.

È stata annunciata la morte dell’arte svariate volte. La pittura invece gode di buonissima salute. Perché secondo te?
La pittura non ha mai goduto di cattiva salute, anche se, come dice giustamente Nicola Samorì, c’è stato un patto tra critici che ha propagandato con successo la tesi opposta, condizionando il giudizio di molti. Questo ha riguardato più la pittura figurativa che quella astratta, per quanto possano valere queste categorie, visto che spesso la figurazione sfocia nell’astrazione e viceversa.

Pietro Roccasalva, The Skeleton Key, 2006

Pietro Roccasalva, The Skeleton Key, 2006

Tanti pittori d’oltreoceano degli Anni Ottanta, tra cui David Salle o Peter Halley, solo per fare un paio di esempi, li abbiamo conosciuti in patria anche grazie a te. Hai sempre avuto un debole per la pittura.
Sì, ho sempre avuto un debole per la pittura, ma questo non m’impedisce di apprezzare ricerche che vanno in altre direzioni. Ho lavorato a lungo con artisti come Anish Kapoor o Tony Oursler. Ho sostenuto pittori come Scully, Bleckner, Lasker o Halley, ai quali sono ancora oggi molto legato. Li sento parte della mia storia, ma non ho una visione nostalgica dell’arte e sono sempre interessato a guardare cosa fanno artisti più giovani e cosa scrivono i giovani critici.

Stai per inaugurare una mostra alla Fondazione Stelline di Milano dal titolo Le nuove frontiere della Pittura. Quali sono queste nuove frontiere?
Negli Anni Novanta è cambiato il modo di confrontarsi con l’esperienza dello spazio e del tempo e di conseguenza è cambiato il modo di trasferire quest’esperienza nella rappresentazione pittorica. Internet ha reso sempre più relativa la percezione di spazio e tempo. A volte abbiamo la sensazione che lo spazio intorno a noi si sia ampliato a dismisura, a volte che si sia ridotto. Ci arriva una tale quantità di immagini e informazioni che non riusciamo a coglierne il reale senso. Questo porta l’artista a riorganizzare il presente piuttosto che a progettare il futuro. In altre parole, passato e futuro sembrano intrecciarsi in un presente dilatato. La pittura di oggi rispecchia questo modo di sentire.

Che cosa c’è quindi oggi d’innovativo nella pittura?
In Occidente si è sviluppata una sana indifferenza verso il concetto d’innovazione. Voler essere innovativi è stata l’esigenza dell’arte del Novecento. Artisti come Borremans, Alÿs, Roccasalva, Sasnal, Samorì o Victor Man si sono liberati dell’ansia novecentesca di rinnovare il linguaggio. Contestualmente è scomparsa l’idea dell’artista veggente, capace di proiettarsi nel futuro. Oggi conta il qui e ora, non è più tempo di promesse per il futuro. Diversa la situazione in Estremo Oriente, e in Cina in particolare, dove c’è una grande spinta verso la sperimentazione.

Jules de Balincourt, Waiting Tree, 2012

Jules de Balincourt, Waiting Tree, 2012

Quali sono le ragioni, secondo te?
Considera che la pittura tradizionale cinese è realizzata tracciando linee con l’inchiostro sulla carta di riso, mentre gli artisti cinesi che partecipano alla mostra impiegano la pittura a olio come medium principale. Questo indica che la pittura cinese attuale, all’interno del proprio sistema, innovativa rispetto alla propria tradizione lo è per forza di cose. Quest’attitudine è legata a precise contingenze storiche. Gli artisti cinesi hanno freneticamente sperimentato i linguaggi dell’arte occidentale del Novecento in poco meno di un ventennio. Questo spiega perché molti di loro utilizzano più linguaggi contemporaneamente.

Dopo il ritorno alla pittura degli Anni Ottanta e dopo artisti come Gerhard Richter, Julian Schnabel, Anselm Kiefer, Georg Baselitz, Jean-Michel Basquiat o Keith Haring, diciamo nati a partire dagli inizi degli Anni Trenta fino all’inizio degli Anni Sessanta, non sono molti quelli che hanno realmente “innovato” in ambito pittorico…
Non c’è arte che non sia anche riflessione sull’arte. Se rifletti su qualcosa che è stato, inevitabilmente stai affermando una differenza. Quando negli Anni Ottanta vedevi un dipinto di Salle che ti ricordava Picabia ti era comunque chiaro che quello era Salle, non Picabia. Cambiava la visione del mondo e questo incideva sulle dimensioni e sull’impianto formale del dipinto.

E oggi, invece?
Nell’arte di oggi c’è una visione del mondo diversa da quella che avevano gli artisti che si sono affermati negli Anni Ottanta, che con qualche eccezione – Clemente, Bleckner, Longo, Fischl, Tansey per esempio – continuavano a prendere le distanze da narrazione e simboli. Un discorso a parte merita l’arte tedesca, che dal dopoguerra ha narrato il dramma della guerra voluta dalla generazione precedente e che per questo ha fatto autocritica sulla propria storia recente anche attraverso l’arte, raccontando il dramma di una patria divisa in due. Questa narrazione ha prodotto grande pittura, decisamente diversa da quella che si fa oggi.

Demetrio Paparoni. Photo Credit Timothy Greenfield Sanders

Demetrio Paparoni. Photo Credit Timothy Greenfield Sanders

Che criteri hai adottato per selezionare gli artisti?
La mostra presenta opere di artisti, quasi tutti nati dopo il 1960, che da anni accompagnano le mie riflessioni sulla pittura.

Come hai selezionato in particolare le opere che vedremo in mostra?
Con gli occhi, tappandomi le orecchie davanti ai commenti e ai suggerimenti che mi piovevano da più parti.

Leggo sul comunicato stampa della mostra che Le nuove frontiere della Pittura è “la prima grande esposizione internazionale realizzata in Italia totalmente incentrata sulle nuove tendenze della pittura figurativa contemporanea”. Non è anacronistico, oggi, parlare di pittura figurativa o astratta?
Il ventaglio di esperienze pittoriche attuali è vastissimo e ogni posizione legittima. A essere oggi anacronistica è la presunzione dei critici di decidere cosa abbia diritto di essere considerato attuale e cosa invece va rottamato. I miei testi sull’astrazione degli Anni Novanta mettono in luce che già dagli Anni Ottanta gli astrattisti non si ponevano più in contrapposizione con i pittori figurativi. Ross Bleckner aveva una doppia produzione, una astratta e una figurativa. Jonathan Lasker spiegava che in una linea che taglia in orizzontale un dipinto astratto si può leggere la linea dell’orizzonte. Peter Halley dava immagine allo spazio che l’uomo si costruisce. Che questa ricerca possa avermi portato, a distanza di poco più di venti anni, a fare una mostra di pittura figurativa e narrativa è meno strano di quanto possa sembrare.

Oggi persino la parola pittura suona anacronistica, considerando che molti “pittori” contemporanei usano più media.
Alcuni dei pittori presenti in mostra utilizzano anche altri mezzi espressivi. Non c’è in questo progetto il tentativo di stabilire primati di un mezzo su un altro, semmai c’è il tentativo di far uscire la pittura figurativa dall’angolo in cui periodicamente si cerca di spingerla, tacciandola di “anacronismo”. Il mio obiettivo è presentare buoni quadri figurativi e dimostrare che la pittura figurativa non è affatto l’ancella dell’arte moderna e contemporanea, come molti sono riusciti a far credere nel corso del Novecento e come qualcuno ancora tenta di far credere oggi. Non esistono nel Novecento momenti in cui la pittura figurativa ha smesso di essere vitale.

Nicola Samorì, Sciapode mariano, 2016

Nicola Samorì, Sciapode mariano, 2016

In mostra vedo nomi come Michaël Borremans, Jules de Balincourt, Paulina Olowska, Markus Schinwald… Sono tutti artisti emersi a livello internazionale nei primi Anni Zero. Li ricordo bene perché a quei tempi (dal 1999) ero caporedattore di tema celeste, rivista che hai fondato nel 1983 e diretto fino al 2000, e molti di questi sono finiti sulla copertina. Siamo sicuri che sono loro i rappresentanti delle nuove frontiere della pittura? Dalla metà degli Anni Zero a oggi sono passati più di dieci anni…
Presento una situazione perlopiù consolidata e il titolo si riferisce alle immense possibilità che la pittura può ancora esprimere. Il fatto che nelle mostre si tenda a dare poca importanza alla pittura privilegiando opere di artisti che usano media diversi è spesso frutto di conformismo. Alcune mostre di oggi, per esempio, sembrano voler dimostrare che il fotogiornalismo ha destituito il primato dell’arte nel dire il vero in maniera incisiva. Per me un dipinto avrà sempre la capacità di dire qualcosa che va oltre un attimo e uno spazio definito. Ho scelto artisti che nella loro diversità dimostrano quanto vitale sia la pittura. Dal 2000 a oggi non è cambiato molto. È cambiato invece molto dal 1970 al 1980, com’è cambiato molto dal 1990 in avanti. Come ho detto prima, negli Anni Novanta è cambiato soprattutto il modo di confrontarsi con l’esperienza dello spazio e del tempo.

Molti giovani pittori hanno avuto un successo fulmineo grazie al mercato e al supporto di collezionisti. Quanto il mercato influenza ancora oggi il successo di un pittore e quanto c’è di realmente nuovo in quello che fa? Penso a fenomeni come Oscar Murillo o David Ostrowski.
L’artista getta nel mondo le sue opere e queste sono soggette alle leggi del mercato che, per quanto manipolato possa essere, risponde alla domanda e all’offerta. Poi il tempo farà la sua scrematura.

Daniele Perra

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Daniele Perra

Daniele Perra

Daniele Perra è giornalista, critico, curatore e consulente strategico per la comunicazione. Collabora con "ICON DESIGN", “GQ Italia”, “ULISSE, "SOLAR" ed è docente allo IED di Milano. È stato fondatore e condirettore di “unFLOP paper” e collaboratore di numerose testate…

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