L’era del vjing. L’editoriale di Lorenzo Taiuti

Qualcuno lo chiama “live cinema”. Sta di fatto che quella strana commistione di suoni e immagini sta prendendo sempre più piede. È la forma d’arte del terzo millennio?

Il fenomeno del vjing sta toccando i due maggiori musei romani, Maxxi e Macro. Prima con una serie di interventi di mapping sulla facciata dell’edificio di Zaha Hadid realizzati da diversi gruppi, poi con il Live Cinema Festival al Macro di via Nizza. In passato c’era stata un’edizione al Macro Testaccio, spazio che considero più adatto per queste manifestazioni: la proiezione video ha infatti bisogno di vasti schermi per sviluppare la capacità immersiva e spettacolare dell’immagine unita al suono. La definizione di “live cinema” (derivata dall’originale “live media”) si sviluppa lentamente come linguaggio ma rapidamente come diffusione. E ricorda quella del graffitismo negli Anni Ottanta, che in poco tempo si diffuse in Occidente e in Oriente attraverso i media più diversi.

UN MEDIUM POTENTE

Il medium vjing può essere potente ma, come la Street Art a cui è legata, deve trovare una situazione di site specific ed elementi linguistici che siano riconoscibili. Il fatto che il vjing sia stato sin da subito annesso agli spazi sociali dei quartieri, alla club culture e alle periferie mobili dei linguaggi digitali mette in evidenza come si tratti del più ambiguo, perverso e polimorfo dei linguaggi urbani. Una delle differenze rispetto al graffitismo è che quest’ultimo vuole essere immediatamente riconoscibile, mentre lo “stile”, il linguaggio del vjing tende a esplodere con elementi discordanti, con processi dissociativi invece che associativi, come sarebbe invece nella norma cine/video.

LINGUAGGI LIVE

Siamo nell’area del cinema espanso, per citare il famoso saggio di Gene Youngblood, oppure in una fase di coltura e cultura da cui usciranno domani cose completamente diverse e inaspettate? In questi anni l’associazione Live Cinema Festival ha lavorato con continuità, creando legami con situazioni simili all’estero. Barcellona, con il gigantesco Sónar, resta il modello. Ma ce ne sono altri possibili, forse affrontando il confronto con le arti visive in modi nuovi e inaspettati, e testandone l’effetto su questo strano pubblico che guarda uno spettacolo di suoni e immagini trascinanti, ma non danza; guarda senza leggere, ipnoticamente, distaccato ma in uno stato di apparente appagamento. La vitalità stessa del genere dovrebbe attrarre i musei verso politiche nuove. I linguaggi “live” sono qui per restare. Vedremo come.

Lorenzo Taiuti

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #34

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Lorenzo Taiuti

Lorenzo Taiuti ha insegnato corsi su Mass media e Arte e Media presso Academie e Università (Accademia di Belle Arti di Torino e Milano, e Facoltà di Architettura Roma). È esperto delle problematiche estetiche dei nuovi media. È autore di…

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