Archeologia. Una questione di Stato?

Stefano Monti riflette sulla linea adottata dallo Stato in fatto di scavi archeologici, nei quali possono essere impiegati solo professionisti del settore e studenti iscritti alla relativa facoltà. Così facendo, l’archeologia diventa solo una “questione di Stato”?

Sul piano formale, l’Italia della Cultura è un Paese che ambisce a essere sempre aggiornato con gli sviluppi internazionali: Convenzione di Faro, linee guida, Caschi Blu della Cultura, ecc. ecc.
Tutto questo è inutile.
Può servire come un’operazione di greenwashing, è vero, ma prima di andare in giro a firmare convenzioni dovremmo avere le idee chiare sullo stato di salute del nostro Patrimonio Culturale e sulle normative e i regolamenti che ne disciplinano l’amministrazione. Prendiamo l’esempio del patrimonio archeologico e di come la circolare n. 6 del 2016, che interpreta in misura oltremodo restrittiva le possibili attività realizzabili all’interno degli scavi archeologici, risulti in più punti incompatibile con la Convenzione di Faro.
La questione è più o meno riassumibile come segue: l’attività archeologica di scavo è un’attività senza scopo di lucro, tranne che per lo Stato.
Ma procediamo con ordine: la già citata circolare contiene il riferimento ad alcune norme che possono sicuramente essere considerate discutibili e, tra di esse, particolare rilevanza assumono quelle che prevedono che: “in vista di preservare il patrimonio archeologico e di garantire il significato scientifico delle operazioni di ricerca archeologica, ciascuna parte si impegna a vigilare che gli scavi archeologici ed altre tecniche potenzialmente distruttrici siano praticate solo da persone qualificate e specialmente abilitate” e che “le richieste di concessione che prevedono la formula delle Summer School o formule analoghe potranno essere accolte soltanto a condizione che i partecipanti siano studenti o studenti di archeologia.
Detto in altri termini, a operare negli scavi devono essere solo archeologi (abolendo pertanto ogni forma di volontariato) e che le Summer School debbano essere destinate esclusivamente a chi ha già deciso di studiare archeologia (senza poter generare alcun tipo di profitto per l’organizzazione).
Per essere ancora più chiari, tale circolare mina alla base ogni forma di sostenibilità economica di un progetto di scavo che non sia direttamente sostenuto dallo Stato, rendendo l’attività archeologica quotidiana, allo stesso tempo, una dimensione elitaria, per adepti.

Quanto contenuto nella circolare corrisponde alla definizione di ciò che, in economia, viene definito come barriera d’entrata.

Prima di addentrarci in territori scivolosi, è giusto ribadire che è necessario che a presiedere alle attività di scavo siano professionisti esperti, e che il lavoro volontario non deve in alcun modo essere un surrogato di attività professionali di altro tipo.
Fatte le dovute abluzioni, però, proviamo a calare il discorso nel più solido terreno della concretezza: in un’attività di scavo esisteranno sicuramente attività delicate, ma esistono anche tante altre attività che, oltre alla dovuta cautela e attenzione, non richiedono una grande esperienza. E a testimoniare tale visione (oltre che il buon senso) è la stessa circolare quando afferma che gli studenti (che certo non sono esperti) possono comunque accedere a Summer School.
Rendere inammissibile il lavoro volontario significa, dunque, aumentare di molto il costo del personale di qualsiasi soggetto giuridico operante legittimamente in tale attività: un archeologo dovrà quindi assolvere anche a funzioni che non richiedono necessariamente una specializzazione, rendendo inefficiente l’allocazione dei task e delle responsabilità. Un po’ come sostenere che anche chi fa le pulizie nei musei (o chi cura l’amministrazione) debba essere necessariamente laureato o laureando in Storia dell’Arte.
Questa previsione, dunque, prevede che le organizzazioni abbiano un costo del personale molto elevato (se vogliamo che la professionalità di un archeologo venga remunerata in modo dignitoso), mentre la limitazione delle condizioni alle quali è possibile organizzare le Summer School, invece, vanno a limitare le possibilità di ricavo da parte delle organizzazioni stesse.
È più o meno la stessa logica applicata alla Germania al termine della Prima Guerra Mondiale. Paga di più e produci di meno. Ma se a giustificare quel desiderio di prevalsa nei confronti della Germania c’era una guerra, in questo caso la previsione non scaturisce da guerra alcuna. È una rivalsa del tutto gratuita a meno che non si sia inclini a pensare che il nostro Paese voglia centralizzare tutte le attività di scavo, evitando che altri soggetti possano portare avanti con efficienza e con passione ciò che lo Stato, da solo, non riesce a condurre.

Rendere inammissibile il lavoro volontario significa, dunque, aumentare di molto il costo del personale di qualsiasi soggetto giuridico operante legittimamente in tale attività: un archeologo dovrà quindi assolvere anche a funzioni che non richiedono necessariamente una specializzazione, rendendo inefficiente l’allocazione dei task e delle responsabilità”.

Non si tratta di dicotomia vecchia e stantia tra tutela e valorizzazione (dietro la quale si celano soltanto interessi contro interessi): quanto contenuto nella circolare corrisponde alla definizione di ciò che, in economia, viene definito come barriera d’entrata. Si creano condizioni di scenario (amministrativo, legale, fiscale, ecc.) che rendono difficili l’emergere di un sistema di concorrenza e che invece è proprio quello di cui avremmo bisogno, sia per migliorare i livelli qualitativi generali delle organizzazioni, sia nell’intento di creare una forma di diffusione della conoscenza archeologica, attraverso un percorso di apprendimento esperienziale.
Il nostro Paese deve fare un po’ di luce sulla linea politica e strategica che intende adottare nei riguardi della cultura. Se intende centralizzare tutto, se intende porre barriere sempre più elevate per l’iniziativa privata all’interno della cultura può farlo. È una linea politica. Ma questa linea politica richiede fondi necessariamente più elevati di quelli stanziati.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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