La maternità come atto di resistenza. Se ne parla in una mostra in Veneto
Sei artisti di generazioni diverse raccontano da Atipografia ad Arzignano con le loro opere il primo atto collettivo, generare e venire al mondo. In un progetto che apre ad una trilogia di mostre trascendenti e introspettive volte all’esplorazione dell’animo umano
Negli ampi spazi di Atipografia ad Arzignano in provincia di Vicenza, riconvertiti dallo Studio AMAA a galleria da una struttura di fine Ottocento, la titolare Elena Dal Molin e Marco Mioli curano un progetto di ampio respiro che ha come primo capitolo la mostra Matermània/Matermanìa. Nell’esplorazione dell’animo umano verso la trascendenza, la maternità, che, come suggeriva decenni prima l’artista Antonietta Raphael, è l’origine e la fine del tutto, è il momento di apertura di una riflessione profonda che ha interessato sei artisti e i due curatori in questa indagine al termine della notte.
La mostra Matermània/Matermanìa ad Arzignano
La maternità è infatti qui indagata attraverso sguardi molteplici, maschili e femminili, è un evento collettivo e di trasformazione, rappresentato nella creazione di nuove iconografie e mitografie e nella relazione che il corpo intrattiene con la natura, in armonia ed equilibrio universale.
A far parte di questo disegno sono sei artisti, che a volte sembrano quasi dialogare a coppie in rimandi a specchio, quali Marta Allegri (Bologna, 1961), Mats Bergquist (Stoccolma, 1960), Gregorio Botta (Napoli, 1953), Diego Soldà (Arzignano, 1981), Željana Vidović (Lussin Piccolo, Croazia, 1982) e Stefano Mario Zatti. Tutti con una visione diversa e un’espressione peculiare in chiave contemporanea di questo afflato (e abbraccio) generativo. Sacrale, quasi eucaristico, è l’intervento di Botta, dove l’inequivocabile presenza organica del latte gioca in un altare laico con il nitore dei materiali usati. Gli fa da contraltare la Allegri con gesti apparentemente ed esclusivamente radicati nella vita terrena, tuttavia sacerdotali, dove l’iniziazione è totalmente femminile: sta nelle memorie sensoriali, nell’odore del brodo, nel passaggio di consegne tra generazioni di donne, nelle vicende di famiglie che trasmettono storie e saperi.
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Le opere in mostra da Atipografia
Saperi che si concretizzano nella stratificazione di costellazioni familiari negli “ammoniti” che caratterizzano l’archeologia contemporanea di Diego Soldà. La sua “fertile ambiguità”, come ebbe a scrivere di lui il critico e storico dell’arte Renato Barilli si realizza attraverso la sovrapposizione quasi frattale di patine di tempera colorata, le quali avviluppandosi tornano al grado zero del colore, per sottrazione. A ogni luna piena, invece, Zatti registra lo scorrere del tempo disegnando sulla stessa opera i contorni corporei del figlio Efrem, azione cominciata nel 2017 e che continuerà finché Efrem stesso lo vorrà. Le ceramiche panciute di Željana Vidović (Amare (2023-2024)) racchiudono il senso di una maternità che è umana ma anche artistica e creativa, in dialogo con le forme immanenti (Venus) a encausto proposte dall’artista svedese Bergquist, che chiudono il percorso espositivo.
Le mostre che compongono la trilogia
In un progetto nato nel tentativo di offrire uno sguardo rotondo sulle cose in un mondo, per dirla con la curatrice Dal Molin, “sempre più bidimensionale, dove l’annullamento della superstizione ha finito per cancellare anche l’estasi, la gloria, il senso del sacro. Il primo atto di resistenza è proprio nel dare alla luce, la maternità: il primo atto collettivo”. E non è un caso che il secondo capitolo di questa trilogia parlerà, sotto il titolo L’ombra delle lucciole, di luce dell’essere, per chiudere, successivamente con la terza mostra che farà ardere la fiamma intima che dà senso e forza nella vita, il daimon, ponendosi a metà strada fra ciò che è divino e ciò che è umano.
Santa Nastro
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