Moda e arte. Le sirene del soft power incantano anche il fast fashion
Se il rapporto fra i grandi marchi del lusso e l’arte contemporanea è ormai cosa nota e consolidata, il fast fashion sta recuperando senza perdere tempo: le iniziative di Uniqlo al MoMA di New York, o le celebrazioni del 50esimo anniversario di Zara a Parigi sono solo esempi di un art washing da tenere d’occhio
La presenza dei brand moda nei musei e nelle manifestazioni culturali di grande rilievo non è una novità. Negli ultimi decenni le loro attivazioni culturali qui sono state di così grande portata da aver fatto di alcuni di loro punti di riferimento imprescindibili nel campo delle arti visive. Le ricadute sono state così ampie che immancabilmente sono poi arrivati fraintendimenti e distorsioni. C’è una sostanziale differenza tra un’attivazione culturale e un’azione di marketing. Non tutti sono disposti a concederlo, le resistenze ideologiche sono ancora difficili da scalfire: ma le cose stanno così. Dominique Foray (economista franco-svizzero specializzato in politiche dell’innovazione) nel suo Economia della Conoscenza definisce la nostra epoca come quella dove gli input immateriali sono divenuti centrali per qualsiasi tipo di produzione. Nell’epoca del capitalismo cognitivo (che ha sostituito quello fordista dove nell’aspetto produttivo la forza muscolare ancora prevaleva sulla conoscenza scientifica) le interazioni con talenti provenienti dagli ambiti più diversi rappresentano per i brand moda un arricchimento che altrove l’industria struttura nelle unità R&D (Ricerca e Sviluppo) utili per sintonizzare i prodotti sulla sensibilità sempre in evoluzione del pubblico. È questa la dinamica che Pierre Bourdieu ha indicato come conversione di una frazione del capitale economico posseduto in capitale simbolico, culturale o sociale.
Moda e soft-power. Il caso Louis Vuitton
Non è sempre facile distinguere. LVMH, tra i gruppi leader del “lusso” è il più propenso ad azioni di marketing diretto, e così affianca, a mirabolanti esposizioni come quella ora dedicata a Gerhard Richter da Fondation Louis Vuitton a Parigi, negozi-galleria per altri suoi brand. Gli spazi di vendita di Bulgari, Fendi e Tiffany posti uno accanto all’altro nel cuore del quadrilatero della moda milanese vengono proposti come negozi-galleria dove sono esposte opere d’arte commissionate, progetti che intrecciano con l’artigianato di lusso o mini-esposizioni di collezionisti ospiti. In questo caso il bilanciamento tra capitale culturale e intenti touch point pende decisamente verso il secondo elemento: qui, fianco a fianco con gli oggetti d’arte esposti, stanno prodotti in vendita che costituiscono il fulcro dell’operazione.
Tra fondazioni e collezioni: Cartier, Prada e Pinault
Un altro esempio è rappresentato delle attivazioni culturali operate da Cartier, il più celebre tra i brand del Gruppo Richemont. Lo straordinario programma espositivo che Fondation Cartier pour l’art contemporain porta avanti da oltre mezzo secolo all’interno dei palazzi disegnati appositamente da Jean Nouvel è cosa assai diversa dall’esposizione di gioielleria operata in musei di ogni parte del mondo: in questo secondo caso Fondation Cartier non è mai implicata, né i gioielli della straordinaria collezione di questo marchio sono mai entrati nella sua programmazione artistica. Nell’ampia area di Fondazione Prada a Milano non compare un solo oggetto in vendita in vendita con questo nome: ad oggi non risultano collaborazioni tessili avviate con i numerosi creativi coinvolti nella sua programmazione. Per quel che riguarda poi le attività svolte alla Bourse di Commerce da Collection Pinault nemmeno il nome coincide con quello di uno dei brand che fanno capo al gruppo Kering. Occorrono passione, anni di esperienza e uno staff di esperti di primo ordine per mettere in moto attivazioni culturali come quelle a cui ci hanno abituato questi nomi. Musei e fondazioni che con la moda non hanno niente a che fare guardano alle loro programmazioni con aperta ammirazione.
Uniqlo x MoMA e il mimetismo del fast fashion
Tutto in regola dunque? No proprio. Di recente è partita l’azione di disturbo dei brand del fast fashion. I gruppi europei (Inditex, H&M e Uniqlo) da sempre mettono in vendita fotocopie più o meno semplificate delle proposte provenienti dalle passerelle del cosiddetto “lusso”. Da qualche tempo hanno intrapreso la strada dell'”esperienza culturale”. Durante una recente visita al MoMA sono rimasto sorpreso dall’apparizione di un’insegna luminosa che nell’atrio indicava ai visitatori la possibilità di entrate gratuite il venerdì sera, grazie a una specifica sponsorizzazione di Uniqlo. I musei di New York contemplano la possibilità di una giornata con ingresso gratuito a cadenza mensile. Non la contemplava il MoMA prima di questa intercapedine settimanale sponsorizzata da Uniqlo. Sempre da Uniqlo in questo ultimo scorcio dell’anno è arrivato un fumoso annuncio riguardante l’apertura di un programma dedicato ad artisti in residenza. Primo della serie KAWS, da sempre aperto a collaborazioni di ogni genere. Bounty Hunter & A Bathing, Supreme, Undercover, Comme des Garçon, Dior uomo, Nike, Audemars Piguet, Kaney West, Hennessy, Kiejl’s, Dos equis fanno parte del suo portfolio: KAWS ha collaborato per brand moda, giocattoli, packaging, arredamento, musica, cosmetica, alcolici. Ora Uniqlo gli affida un ruolo strutturato con partecipazione a collezioni lifewear, eventi, installazioni, progetti museali. È in fondo una dinamica nota: se non hai il brevetto o uno straccio di patentino per esercitare un mestiere, lo vai a comprare da qualcuno disponibile a fare da prestanome.

Non solo Uniqlo: il riposizionamento di Zara
Per celebrare i 50 anni dalla fondazione di Zara (brand di punta di Inditex, leader mondiale per fatturato nel settore tessile) ha invitato celebrities, designer, fotografi, registi, artisti, architetti (tra cui Annie Leibovitz, Anna Sui, David Chipperfield, David Sims, Kate Moss, Marc Newson, Naomi Campbell, Nick Knight, Norman Foster, Pat McGrath, Pedro Almodóvar e Steven Meisel) a creare pezzi unici, disponibili in una edizione limitata nata per reinterpretare il brand. Che cosa ci sia da reinterpretare in un brand che progetta capi e accessori appositamente destinati ad essere sostituiti nel minor tempo possibile non è chiaro. In ogni caso per l’occasione un popup comunicato come “mostra/esperienza culturale” ha preso vita a Parigi al 40 di Avenue Georges per sottolineare il posizionamento “premium” e l’ambizione colta dell’intera operazione. Di recente è arrivato a Barcellona anche il punto vendita progettato dall’architetto belga Vincent Van Duysen comunicato come “luogo di incontro” per chi acquista “lusso accessibile” (gli eufemismi sono un patrimonio inestinguibile del fast fashion).
Smontare il mimetismo del fast fashion è responsabilità di chi comunica
Come ho raccontato in un articolo precedente, nel tessile di ogni parte del pianeta sta infuriando una competizione che coinvolge “lusso”, fast fashion e ultra-fast fashion. Migliaia di posti di lavoro nella catena produttiva europea (specialmente in quella italiana) sono a rischio. Operazioni mimetiche costruite contando sull’ingenuità di chi acquista, dovrebbero trovare un freno, essere analizzate, smontate pezzo per pezzo per mostrarne la pochezza: da chi di mestiere si occupa di comunicazione. Il consumatore resta libero di decidere come comportarsi (il prezzo basso di questi tempi è un magnete potente, l'”esperienza culturale” meno) ma potrà farlo a ragion veduta. Se è vero (ed è verissimo) che fast fashion e ultra-fast fashion con la loro devastante impronta ecologica costituiscono il cancro del tessile mondiale, non dovrebbe essere sufficiente assoldare un creativo più o meno conosciuto per ottenere il salvacondotto valido per ogni inganno.
Aldo Premoli
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