Il linguaggio come infrastruttura della vita collettiva. Nonostante l’enshittification
Lo schema è sempre quello: si inizia con alta qualità dei servizi e dei contenuti, per poi assistere a un declino generale prima lento, poi sempre più rovinoso
In base alla enshittification descritta dallo scrittore di fantascienza canadese Cory Doctorow, il processo di degradazione progressiva delle piattaforme digitali non è frutto di un difetto strutturale, ma piuttosto sulla base di un piano ben preciso che ha a che fare con l’estrazione ultima del valore: è il caso paradigmatico, per esempio, della parabola di Twitter-X, prima e dopo l’acquisizione da parte di Elon Musk.
Che cosa è l’enshittification
Questo processo porta alla ‘morte’ per esaurimento/svuotamento della piattaforma. Questo termine-concetto (inventato e introdotto tre anni fa) si può estendere e applicare utilmente a tutta una serie di altri campi, compresi ovviamente quelli dell’arte e della cultura. Fa parte, infatti, dell’esperienza comune e condivisa il fenomeno di un’apparente enshittification che ha riguardato e riguarda – con lodevoli e notevoli eccezioni, che però classicamente non fanno che confermare la regola – oggetti singoli e intere aree come musica, design, letteratura, serie tv. Lo schema è sempre quello: si inizia con alta qualità dei servizi e dei contenuti, per poi assistere a un declino generale prima lento, poi sempre più rovinoso. Una volta agganciati i clienti, sembra che la loro soddisfazione non sia più la priorità, ma che si pensi di far ingoiare loro qualunque cosa (e il termine-concetto stesso di “contenuto”, introdotto non moltissimo tempo fa in ambito culturale, che cosa rappresenta se non la definitiva equivalenza-equiparazione di ogni opera ad ogni altra, del cinepanettone al film d’autore, del film di supereroi alla distopia raffinata, della commedia dozzinale al gangster-movie innovativo? Il rettangolino – verticale o orizzontale – è sempre lo stesso, ha sempre le medesime dimensioni – e che noi ne scegliamo uno piuttosto che un altro, o che non ne scegliamo nessuno rimanendo per mezza serata a scartabellare in maniera sempre più sconsolata per la piattaforma non fa alcuna differenza: è esattamente lo stesso).
Opere d’arte e contenuto
Ora, certamente arte e cultura sono una parte importante, essenziale della nostra vita; ma gli effetti della enshittification si fanno molto più preoccupanti e inquietanti se guardiamo ad altri ambiti, come la società, la politica, l’economia. E, soprattutto, il linguaggio, che in fondo è l’infrastruttura più rilevante, e delicata, della nostra vita collettiva. Non possiamo non aver fatto caso, una volta o l’altra, a quanto il linguaggio sia andato incontro a un processo di ipersemplificazione che è stato rapidissimo e molto, molto profondo. E che lo diventa, a quanto parte, sempre di più. Anche per questo, come per tantissimi altri aspetti, occorre rivolgersi a George Orwell e al suo capolavoro-testamento, 1984: nel 1948, aveva immaginato e anticipato ciò che poi si è puntualmente realizzato in forme magari diverse nell’aspetto, ma terribilmente corrispondenti (negli Anni Ottanta e Novanta del Novecento era di moda deridere lo scrittore inglese, additando quanto il contesto fosse diverso da quello descritto nel romanzo; oggi, mi sembra, non ride quasi più nessuno: non ci sono Oceania, Eurasia ed Estasia – come del resto non c’è Panem, se è per questo – ma non manca poi molto…).
Il linguaggio come infrastruttura della vita collettiva
In particolare, la neolingua del Socing descritta in modo particolareggiato nell’Appendice è quella già largamente in uso nelle nostre società, con il suo essere programmata per costringere ad adottare un’interpretazione della realtà e solo quella, e all’impossibilità concreta di vedere altrimenti, di pensare altrimenti: “Il lessico della neolingua era articolato in modo da fornire un’espressione precisa e spesso molto sottile per ogni significato che un membro del Partito volesse correttamente esprimere, escludendo al tempo stesso ogni altro significato, compresa la possibilità di giungervi in maniera indiretta. Ciò era garantito in parte dalla creazione di nuovi vocaboli, ma soprattutto dall’eliminazione di parole indesiderate e dalla soppressione di significati eterodossi e, possibilmente, di tutti i significati secondari nelle parole superstiti. (…) la libertà politica e intellettuale non esisteva più neanche come concetto e mancava pertanto una parola che la definisse. A prescindere dall’eliminazione di vocaboli decisamente eretici, la contrazione del lessico era vista come un qualcosa di fine a se stesso, e non era permessa l’esistenza di una parola che fosse possibile eliminare. La neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle, e un simile scopo veniva indirettamente raggiunto riducendo al minimo le possibilità di scelta” (George Orwell, Appendice. I princìpi della neolingua, in 1984, Mondadori, Milano 2013, p. 308).
Anche qui, direi che praticamente ci siamo.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati