L’intervento dell’artista Eugenio Tibaldi per le detenute del carcere di Rebibbia a Roma è un invito alla rinascita
Dopo un percorso partecipato lungo oltre un anno, l’artista piemontese svela l’opera permanente che condensa desideri, speranze e voglia di riscatto delle detenute di Rebibbia. “BENU” si compone di due fenici luminose, visibili anche dall’esterno del carcere
BENU è il nome di una mitologica creatura egizia, antesignana della fenice, simbolo millenario di rinascita. E con le detenute della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, a Roma, Eugenio Tibaldi (Alba, 1977) ha lavorato proprio sulle molteplici prospettive di futuro, riempiendo di tanti significati diversi un simbolo comune: “Durante le giornate trascorse a Rebibbia ho avuto la netta percezione che la divisione fra chi è all’interno e chi non lo è sia davvero labile. La scelta di provare a immaginare insieme a tutte loro delle nuove fenici ha portato a elaborati intensi che ora con un ulteriore lavoro in studio sto cercando di sintetizzare per creare delle immagini finali che siano allo stesso tempo personali e comuni a tutti noi”, spiegava l’artista qualche mese fa, pronto a dare forma al processo creativo partecipato avviato nel carcere romano.
L’arte contemporanea in carcere con Fondazione Severino e Fondazione Pastificio Cerere
A Rebibbia – che in questi giorni accoglie anche l’iniziativa della piattaforma editoriale Hyperlocal e, dal 12 al 14 dicembre, la mostra fotografica di Guido Gazzilli integrata con l’opera audiovisiva monumentale di arte sociale di Angelo Bonello –Tibaldi è entrato nell’ambito del progetto che lega da diversi anni la Fondazione Severino e la Fondazione Pastificio Cerere nel portare l’arte contemporanea all’interno degli istituti penitenziari (dal 2022 a Rebibbia), in collaborazione con Intesa Sanpaolo e con il patrocinio del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede e del Ministero della Giustizia. Così, a ridosso del Giubileo dei Detenuti in programma per il 14 dicembre, si svela la duplice installazione site-specific e permanente – a cura di Marcello Smarrelli – che entrerà a far parte del patrimonio della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia “Germana Stefanini”, visibile anche dall’esterno a partire dall’11 dicembre.

La genesi di “BENU”: un progetto partecipato con le detenute di Rebibbia
Il percorso dell’artista piemontese in carcere è iniziato nel settembre 2024, con le prime visite, gli incontri preparatori con gli operatori e la definizione concettuale del progetto. Nei mesi successivi, Tibaldi ha condotto laboratori creativi con le detenute, incentrati sul disegno come linguaggio universale capace di esprimere emozioni e abbattere barriere linguistiche e sociali: “Dai desideri e bisogni emersi nel dialogo con le donne della Casa Circondariale, Tibaldi ha tratto ispirazione per la creazione di BENU, che nell’interpretazione dell’artista diventa un messaggio di speranza e trasformazione, dedicato alle donne detenute per spingerle a superare i confini, fisici e simbolici, della reclusione.
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L’installazione site-specific di Eugenio Tibaldi per Rebibbia
BENU si compone di due fenici che incarnano i temi ricorrenti nei dialoghi con le partecipanti: la ricerca di libertà, la forza della trasformazione, il potere dell’autoguarigione, la possibilità di rinascere. Due figure che vogliono propiziare un dialogo con l’esterno, e inviare un segnale tangibile di vita, dal carcere al quartiere che lo circonda. Nuovi miti con cui identificarsi – tanto per le detenute che per chi osserva l’opera – simboli di speranza e motori motivazionali in un percorso di crescita e cambiamento. “Attraverso l’ausilio del disegno, le detenute hanno potuto raccontarsi, mettendo a nudo i loro pregi e difetti che sono diventati altrettanti attributi di queste fenici immaginarie che diventano un autoritratto collettivo” sottolinea Smarrelli “Tibaldi ha sperimentato nel carcere una nuova modalità di committenza, dove l’opera d’arte torna ad essere materia viva che pulsa in uno spazio abitato da chi ha contribuito a realizzarla attraverso la manifestazione dei propri desideri e necessità”.
In forma di sculture luminose, innalzate su aste di oltre otto metri, le due fenici sono collocate in modo strategico, affinché siano visibili dalle finestre delle stanze di pernottamento delle detenute, dagli uffici del personale dell’istituto e dall’esterno del carcere. E non si illuminano in modo passivo, hanno bisogno della forza attiva delle donne detenute: durante i sopralluoghi preliminari è emersa infatti l’esigenza di avere a disposizione degli attrezzi con cui allenarsi; da qui l’idea di installare nelle aree comuni 7 cyclette collegate a generatori e accumulatori di energia. Grazie al lavoro fisico di chi decide di usare le cyclette viene prodotta e accumulata l’energia che accende le fenici, collegandone la visibilità all’esperienza quotidiana delle detenute.

I risultati di un lavoro partecipato
“Io non credo all’eternità scontata delle opere d’arte, ma in ciò che necessita dell’amore per vivere” racconta ora un emozionato Tibaldi nel vedere le due fenici installate “I progetti ti cambiano, mi sono reso conto di essere entrato qui troppo leggero, io stesso ho dovuto fare un percorso con gli educatori. Per la prima volta nella vita ho sentito che quello che stavo facendo poteva avere una funzione“. Dal canto loro, le detenute del carcere femminile più popoloso d’Italia e d’Europa hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa: “Si era pensato di coinvolgere solo dieci di loro, ma ho voluto parlare a tutte del progetto: si sono presentate in 60 ad ascoltare, il giorno dopo le iscritte erano un centinaio. Questo ha significato decuplicare le ore di lavoro, che per tutti è stato molto intenso, sfidante e realmente condiviso“. Tibaldi, dunque, ha lavorato a contatto con i luoghi – al mattino spostandosi negli spazi all’aperto e negli ambienti interni del carcere, per schizzare spigolature e prospettive, cogliere la luce, scegliere il posizionamento migliore per le installazioni, “così che tutte potessero vederle dalle celle” – e con le detenute, nei laboratori pomeridiani che hanno portato tutte a mettersi a nudo, riacquistando autostima e imparando a lavorare in gruppo. A tutte è stato chiesto di rappresentare e raccontare il miglior pregio e il peggior difetto, perché le immagini – al pari di un vocabolario per immagini medievale – potessero ispirare Tibaldi nella composizione delle fenici: “Le due installazioni sono il risultato di ciò che è raccolto nei 66 elaborati ricevuti dalle detenute, che hanno definito i ‘colori’ del vocabolario che ho adottato per questo progetto e mi hanno ispirato attraverso i loro disegni, i loro scritti, e più di tutto con la loro presenza. Mi è sembrato di tornare a un tempo in cui all’artista si chiedeva di rappresentare una comunità. Le fenici ci dicono che siamo un’unica società, anche se con un muro in mezzo: loro si innalzano oltre il muro per invitarci al dialogo“. Del resto, come spiegano gli educatori responsabili delle attività trattamentali (quelle che l’ultima, assurda circolare del Dap rischia di rallentare e complicare) all’interno del carcere femminile di Rebibbia, “qui ci sono persone che vivono e che stanno lottando per avere una nuova vita“. “Abbiamo avuto un nuovo punto di inizio, abbiamo capito il nostro passato e quello che potrà essere il nostro futuro“, spiegano loro. BENU racchiude tutto questo impegno. E per questo emoziona.
Livia Montagnoli
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