In attesa della nuova sede la GAMeC di Bergamo continua a esporre sulle Alpi Orobie
Il museo bergamasco inaugura il 5° ciclo di “Pensare come una montagna – Il Biennale delle Alpi Orobie”, un progetto di transizione verso la nuova location con cui anticipa l’uscita dai suoi spazi per entrare in contatto con le comunità, portando l’arte e gli artisti direttamente sul territorio
È proprio Lorenzo Giusti, direttore della GAMeCdi Bergamo, nonché ideatore di Pensare come una montagna – Il Biennale delle Alpi Orobie, a introdurci al progetto nato per traghettare il museo verso la nuova sede in maniera dinamica, anticipando l’uscita dalla location con incursioni sul territorio volte a includere e coinvolgere attivamente cittadini e comunità. Un format che, come preannunciato dall’articolo “Il”, si distingue dalle altre biennali, perché avviene in due anni e non ogni due anni ed è concepito con il territorio e non sul territorio. E la grande affluenza all’inaugurazione del 5° e ultimo ciclo dimostra che Il biennale delle Orobie, con i suoi ventitré eventi messi in campo, rispetto ai venti annunciati, ha centrato l’obiettivo, accrescendo l’attenzione tra cittadini e comunità per l’arte contemporanea e le attività museali. Risultato ottenuto grazie all’abilità di curatore e artisti di entrare in sintonia con il territorio, rispondendo a reali esigenze e necessità. Così, a partire dalla GAMeC, dov’è in corso Seasons, mostra di Maurizio Cattelan, anch’essa diffusa in città, Pensare come una montagna si dipana sulle Alpi Orobie dove gli artisti hanno allestito le loro opere e noi siamo andati a vederle…
Il monumento anti-monumentale di Gaia Fugazza in una stalla delle Alpi Orobie
Si intitola Mother of Millions l’opera di Gaia Fugazza (Milano, 1985) realizzata dopo una residenza in Val Taleggio. Grande scultura in argilla di Impruneta, lavorata artigianalmente e non lisciata, la cui superfice porosa lasciando affiorare i sali, crea una mutevole patina bianca che le conferisce un aspetto vivo. L’opera, con il suo tessuto reso ancor più vibrante dalle tracce cromatiche di veri e propri paesaggi che l’artista “fa succedere sul corpo della scultura trasformandola in ambiente”, condensa in sé profondi significati. Collocando l’opera in una stalla e per di più in ginocchio, Fugazza scardina e ribalta la logica del monumento. E, sobbarcandola del peso dei piccoli “Millions” ne fa un simbolo di come la forza derivi dalla collaborazione e non dall’isolamento, mettendo in evidenza l’importanza che la presenza umana riveste, sin dalla preistoria, sulle Alpi, territorio in cui lo spopolamento è deleterio per natura e biodiversità.

“Graces for Gerosa” di Bianca Bondi nella chiesa sconsacrata di Santa Maria in Montanis
È la danza il tema di Graces for Gerosa, installazione concepita da Bianca Bondi (Johannesburg, 1986) per la chiesa sconsacrata di Santa Maria in Montanis. Sette sculture, realizzate in gesso, a partire dal rapporto stretto con la comunità. Attraverso la danza il gruppo anima la navata, costruendo un ponte tra sacro e profano, tra passato e presente, tra arte e comunità. Bondi recupera il significato atavico della danza, con movimenti che diventano un medium tra il terreno e l’immateriale. L’artista annulla le distanze spaziali e temporali; attraverso il gesso crea un’armonica continuità con il luogo; mentre, tramite le posture, si ricollega alla storia e alla tradizione. Infine, sostituendo ai volti un rigoglioso germogliare, non solo tutela la privacy dei partecipanti, ma suggerisce come dall’arte e dalla cultura possano nascere nuove opportunità di vita e di connessione con l’immateriale.

Con Agnese Galiotto ad Almenno San Bartolomeo l’affresco diventa una pratica contemporanea
“Quando si vive in montagna, la montagna non esiste”. Così esordisce Agnese Galiotto (Chiampo, 1996) che, tornando all’affresco, trasforma una parete di Almenno San Bartolomeo in un racconto visivo sul legame tra uomo e natura. In linea con il suo paradossale titolo, La montagna non esiste l’opera gioca con lo spazio, medium privilegiato dall’artista, proseguendo in prospettiva il profilo del Monte Albenza su cui si affaccia. Dalla vetta si eleva uno stormo di uccelli migratori, per cui la montagna non rappresenta un ostacolo, ma parte ecosistema in movimento. In primo piano, tra l’agave emerge l’elemento umano, metafora del prendersi cura e invito a ripensare il rapporto con l’ambiente e il mondo animale.

Alla Fondazione Dalmine, Abraham Cruzvillegas fa parlare la sua opera attraverso il suono
Si trova nel parco della fondazione Dalmine l’opera realizzata da Abraham Cruzvillegas (Città del Messico, 1968), un lavoro partecipato e collettivo, creato attraverso materiali di recupero. An unstable and precarious self-portrait munching some traditional Fritos…, titolo dell’installazione, la dice lunga sulla natura dell’opera in cui a partire dalla storia, convivono politica, attivismo e ironia. Tre carriole come insolite bandiere, svettano su pali, catalizzando con i loro colori accesi un’attenzione che è divenuta massima all’opening, quando il musicista Dudù Kouate ha attivato l’opera suonandola.

Alla GAMeC di Bergamo Pedro Vaz, artista esploratore, ritrae la montagna
A Bergamo non solo II Biennale delle Orobie, ma la montagna stessa entra nel museo con Pedro Vaz (Mozambico, 1977), pittore esploratore, per usare la definizione di Giusti. L’artista con Becoming Mountain, vero e proprio “ritratto” della montagna Presolana, crea un parallelismo con la Veduta del Pizzo della Presolana (1908) di Ermenegildo Agazzi, cambiando però, il punto di vista. Infatti, se Agazzi, in linea con la poetica ottocentesca, raffigura la Presolana da lontano, Vaz azzera la distanza. Nel suo lavoro l’orizzonte scompare e la montagna diventa paesaggio in bilico tra figurazione e astrazione. Il dipinto, su carta e sospeso in una struttura curva che avvolge lo spettatore, proprio come una parete rocciosa, invita a un incontro ravvicinato con il colore che, steso e in parte lavato, genera forme e ombre imprevedibili, frutto di un dialogo tra il gesto e la materia stessa.

A Bergamo il tributo all’Atelier dell’Errore che da 10 anni “pensa come una montagna”
E, a proposito di Pensare come una Montagna, la GAMeC celebra i 10 anni di Atelier dell’Errore, (AdE) collettivo fondato nel 2002 da Luca Santiago Mora (Bergamo, 1964) come laboratorio di arti visive per bambini neurodivergenti e ufficializzato nel 2015. Alla GAMeC la mostra TEN ripercorre i 10 anni del progetto basato su due pilastri fondamentali: la rappresentazione di animali, come metafore del presente e simboli totemici; il mantenimento dell’errore, come forza vitale e trasformativa. Tra dipinti, disegni, video e installazioni, la mostra ripercorre i 10 anni del gruppo, con un focus sugli esiti più recenti della ricerca, come le performance e la serie Unknown Pleasures sul tema della sessualità: liquida, libera, ibrida. In linea con la vocazione sociale del gruppo, che propone un linguaggio condiviso, fatto di deviazioni, visioni e intuizioni, molte opere sono su coperte termiche di salvataggio. Elemento denso di significati che trasforma i lavori in luoghi in cui trovare rifugio e riparo in una contemporaneità che troppo spesso non ammette errore e diversità.

Nella valle della biodiversità, il workshop di Asunción Molinos Gordo per “Il Biennale delle Orobie”
In un progetto così partecipativo non poteva mancare un workshop. Così l’artista spagnola Asunción Molinos Gordo (Burgos, 1979), in collaborazione con l’Orto Botanico “Lorenzo Rota” di Bergamo, ha coinvolto dieci membri degli orti collettivi in Crops are not Orphans, laboratorio che esplora il concetto di seeds kinship, ovvero la capacità dei semi di generare legami affettivi e senso di appartenenza e i cui esiti saranno presentati alla fine del percorso al museo.
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La danza di Cecilia Bengolea chiude l’opening del 5° ciclo del “Il Biennale delle Orobie”
Al convento di Astino, nella Valle della Biodiversità, si chiude l’inaugurazione del 5° ciclo di Pensare come una Montagna, con la performance Spin and Break Free ideata da Cecilia Bengolea (Buenos Aires, 1979) durante la residenza al Linificio e Canapificio Nazionale di Villa d’Almè. L’artista, danzatrice e coreografa, ispirandosi all’industria tessile, riflette sull’alienazione degli operai ed esplora il piroettare come gesto catartico. Sei danzatori, decostruendo il movimento, traducono questa energia in gesti che, integrando elementi delle Free Dances degli Anni Trenta, con riferimento a François Malkovsky, evolvono da una meccanicità iniziale a un’esplosione di spontaneità e improvvisazione. I costumi, di Alberto Allegretti, in canapa e lino, ispirati al rituale indiano Theyyam, diventano sculture viventi che riflettono la dinamica di liberazione. Col procedere della danza, sulla scia della colonna sonora, composta dall’artista, da cui emergono le voci dei lavoratori, i performer si liberano degli elementi coercitivi per acquisire una sempre maggiore libertà che culmina nel girotondo, trasformando la performance in “un inno alla vita, un invito alla naturalezza e al recupero della gioia e dello stupore infantili”.
Ludovica Palmieri
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