Cosa ci dice l’arte di Maurizio Cattelan sul funzionamento delle opere di oggi?
Mentre la realtà assume una dimensione sempre più distopica e spietata che attrae tutta l’attenzione le opere degli Anni Novanta assumono un sapore sempre più nostalgico rimanendo inerti…

Oggi mi è venuta voglia di andare a vedere la mostra diffusa a Bergamo di Maurizio Cattelan. Ci voglio andare soprattutto perché voglio misurare e considerare di persona, e con la precisione possibile in questi casi (quindi, pressoché nulla), tutto lo scarto che corre tra le opere esposte e una certa idea di opera contemporanea oggi, oppure solo di contemporaneo, oggi. Una sorta di contemporaneo-contemporaneo, se mai potesse e dovesse esistere una cosa del genere…
L’opera d’arte negli Anni Novanta
Voglio dire, le immagini che sono disponibili su internet, le immagini comunicate, parlano di oggetti conchiusi, finiti: opere-oggetti come erano, appunto, negli Anni Novanta. Questo penultimo periodo oggetto di revival e di sguardo sospiroso, quando invece francamente io non li ricordo così favolosi. Quando io, per esempio (insieme a quelli della mia età) mi affacciavo a questo territorio dell’arte contemporanea, e c’erano tutti questi artisti italiani e internazionali – tra cui Cattelan – che realizzavano oggetti brillanti e provocatori, intelligenti, meravigliosi nel loro dare scandalo con nonchalance, con uno schiocco di dita, così alla moda e in tiro, e tu ti sentivi invece un po’ un cretino e un provinciale guardandoli alle mostre o sulle pagine delle riviste…

Le opere d’arte negli Anni Novanta
E questi oggetti, ci ritorno su, questi oggetti funzionavamo come tante lampadine: CLIC, la luce dell’idea si accendeva, ti dicevi e dicevi ‘che bravo/a! non ci avevo pensato!’, e tutto dopo l’ammirazione finiva, l’azione si accendeva e si spegneva lì, nei contorni e nei confini dell’oggetto.
Concluso.
(Non erano naturalmente solo le opere d’arte a funzionare in questo modo – ma anche canzoni, film, libri, ecc. ecc.)
Soprattutto, il contesto attorno non era quello di una distopia realizzata: era tutto molto più leggero, scanzonato, senza conseguenze (anche se non era davvero così, lo sembrava soltanto; e noi retrospettivamente possiamo riconoscere e rintracciare l’origine dell’attualità proprio lì, ancor più che negli Anni Ottanta in molti casi). E quindi la provocazione funzionava bene, aveva spazio e agio per funzionare bene, deliziando più o meno tutti i palati.
L’opera d’arte nella distopia realizzata
Adesso, è tutto molto diverso. Personalmente, sento che l’opera intesa come oggetto che accende e spegne l’idea e l’attenzione non funziona proprio più (per non parlare poi della provocazione): mi sembra invece che questo oggetto rimanga lì dov’è, inerte, inattivo. Muto. La concorrenza del contesto, della realtà, è spietata: si mangia tutta l’attenzione. E allora l’opera è quasi costretta, per così dire, a uscire dai suoi ristretti confini oggettuali e persino mentali, a esondare da sé, a esorbitare, e a diventare anche altro, a mescolarsi almeno in parte con questo contesto così fangoso e viscido. A diventare per certi versi meno arte (e meno opera), al fine di ritrovare la sua vera capacità di essere più arte. Uscire da sé per l’arte vuol dire in fondo sforzarsi di non essere del tutto se stessa, di essere anche altro da sé. Più l’artista e l’opera riescono a fare quotidianamente questo sforzo, più resistono alla tentazione della ripetizione, della comodità. Alla fine, lo scopo è sempre aprire spazi che fino a un attimo prima non esistevano, o no? E che non erano previsti, soprattutto. Introdurre dimensioni, e non replicarle.
Cosa ci dice l’arte di Maurizio Cattelan oggi
Queste opere, le opere di Cattelan (un autore che stimo e rispetto ma che, per qualche motivo, non ho mai sentito mio), ci dicono insomma chi eravamo, che cosa eravamo in un certo momento. Ce lo ricordano con tocco sapientemente nostalgico: ma adesso, in questa fase, lo scarto si sente in maniera molto forte, improvvisamente più di prima – intendendo con prima solo qualche anno fa.
Christian Caliandro
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