Ecofemminismo: una storia di fantasmi e di mostri
Viviamo su un pianeta sull’orlo del collasso. L’ecofemminismo è una risposta filosofica, scientifica e artistica per un futuro meno antropocentrico e patriarcale. Ne ripercorriamo i nomi e le posizioni principali

Forse qualcuno ricorderà il bellissimo progetto delle sorelle australiane Margaret e Christine Wertheim e del loro Institute For Figuring, ispirato alle barriere coralline a rischio di sparizione nel mondo a causa del riscaldamento globale e l’incuria dell’uomo. Il Crochet Coral Reef Project che è stato esposto alla Biennale di Venezia nel 2019, oltre che in molti luoghi del mondo, è stato realizzato all’uncinetto, antica tecnica da sempre identificata con il genere femminile, replicando in lana, seta o cotone ma anche in plastica riciclata quelle forme meravigliose create dalla natura. L’idea progettuale nasce nel 2005 dal dolore delle due sorelle Wertheim per i crescenti danni alla Grande Barriera corallina del Queensland, la loro terra di origine. Negli anni il progetto ha visto la partecipazione entusiasta di comunità e gruppi di persone in tutto il mondo, quasi fosse un lutto collettivo, oppure una sorta di ponte di valore simbolico per elaborare la perdita di quei paesaggi coralline di una bellezza incomparabile. Ma quelle magnifiche ricostruzioni artigianali a volte in grandi dimensioni rappresentano anche una metafora di qualcosa di più profondo. Ideate da Margaret, biologa e scrittrice di scienze e Christine, laureata in letteratura e semiotica, docente alla California Institute of the Arts, corrispondono a una visione ecologica che unisce arte e scienza a partire da una geometria iperbolica ossia “delle superfici a curvatura negativa”, secondo i modelli di una matematica non euclidea. Nel Coral Reef Project le opere all’uncinetto diventano paesaggi fantascientifici, metafore ibride lavorate a mano, con una evoluzione propria che in qualche modo replica quella biologica. Il progetto viene descritto e portato avanti sul filo della metafora affiancando l’evoluzione biologica del reef e del suo artefatto costruito in maniera analogo. Un linguaggio comune unisce la biologia marina e i paesaggi corallini artigianali, fatti di fili, filamenti, fibre, membrane, tessuto, rete, ecc.
Il pensiero di Donna Haraway
Arte, scienza e attivismo sono al centro del celebre saggio Staying with the Trouble di quasi dieci anni fa di Donna Haraway, femminista e studiosa transdisciplinare dell’Università della California Santa Cruz. In un’intervista rilasciata ad Artforum poco dopo la pubblicazione del suo libro, Haraway afferma: “Uno dei compiti più urgenti che noi creature mortali (critters nell’originale) abbiamo, è quello di creare parentele (making kin) con e tra gli altri esseri umani e non umani (…). Propongo di creare delle affinità non genealogiche, una priorità assoluta per gli oltre undici miliardi di esseri umani entro la fine di questo secolo – un tema che è già terribilmente importante. Sono interessata a prendermi cura della Terra in un modo che faccia della giustizia ambientale multispecie, il mezzo e non soltanto il fine”. Gli scritti di Donna Haraway includono spesso parole gergali e terminologie oscure rubate alle scienze, che rivitalizzano il linguaggio introducendo nuovi concetti attraverso metafore che appartengono agli stessi mondi che descrive, soprattutto dalla microbiologia, un campo in cui molte donne illustri hanno aperto strade nuove. Haraway illumina percorsi e nuove connessioni simbiotiche, spesso rivisitando vecchie idee, non necessariamente per confutarle, ma aggiungendo nuove prospettive.
Femminismo ed ecofemminismo, tra scienza e arte
La studiosa femminista, che ha compiuto 80 anni, fa parte di un’avanguardia intellettuale che è stata spesso liquidata con sufficienza in quanto femminista, e quindi “inaffidabile”, accusata di attivismo ideologico e, come se non bastasse, di mescolare le discipline in uno stile di prosa creativo quanto critico nei confronti di nozioni patriarcali e gerarchiche che sottendono molti approcci alla ricerca scientifica. Eppure, il mondo scientifico, come anche quello dell’arte, deve molto al pensiero e all’attivismo femminista. Il femminismo e in particolare l’ecofemminismo nato negli Anni Sessanta-Settanta, oggi molto vicino all’ambientalismo sociale, combatte da decenni una battaglia sostanzialmente inascoltata contro poteri chiamati di volta in volta forti, patriarcali, egemonici, ma comunque autoritari, che oggi sembrano essere tornati con una veemenza inaspettata, determinati a distruggere ad ogni costo ogni cosa che contrasti con i propri interessi illiberali.

Il pensiero ecofemminista è necessariamente interdsciplinare
Negli ultimi decenni molte scienziate che spesso non si limitano a essere ricercatrici, ma sono anche scrittrici, narratrici, artiste, animate da una spiccata volontà di raccontarsi anche al di fuori dal mondo scientifico, hanno contribuito a forgiare un’immagine della ricerca scientifica un po’ diversa, meno impettita e “tutta d’un pezzo”, preferendo invece una narrazione più veritiera, più vicina a un processo “sporco”, fatto di ipotesi, sperimenti e fallimenti, metafora del processo utilizzato dalla ricerca stessa. Come disse una volta Gregory Bateson, “coloro cui sfugge completamente l’idea che è possibile avere torto, non possono imparare nulla tranne la tecnica”.
Fantasmi e mostri dell’ecofemminismo
Rachel Carson (1907-1964) biologa e scrittrice, autrice di Silent Spring (1962), ispiratrice dei movimenti ambientalisti di base (grassroots environmentalism) è stata tra le prime a promuovere le campagne contro i pesticidi e il DDT, ad affrontare il tema degli ecosistemi attraverso libri quali The Edge of the Sea che esplorava la natura stranamente arcaica della vita marina costiera e a mettere in dubbio il paradigma del “progresso” scientifico che è stato il vanto della cultura statunitense del secondo dopoguerra.
In tempi più recenti due conferenze seminali avvenute nel 2014 con lo stesso titolo, Anthropocene: Arts of Living on a Damaged Planet, a maggio all’Università della California, Santa Cruz (UCSC) e in ottobre ad Aarhus, Danimarca, hanno visto la presenza di molti studiosi “intersezionali” o transdisciplinari da tutto il mondo: biologi, antropologi, filosofi, nomi illustri, tra i quali James Clifford, Donna Haraway, Ursula K. Le Guin, Anna Tsing, Nils Bubant e molti altri. Gli interventi partono dalla domanda implicita nel titolo, “come vivremo su un pianeta danneggiato?”. Un’antologia di testi dallo stesso titolo risponde alla sfida di un cambio radicale di prospettiva a partire da due figure chiave: i fantasmi ossia paesaggi spettrali che popolano i nostri peggiori incubi come quelli di Gaza, e i mostri, creature a noi sconosciute che intrattengono relazioni interspecifiche quali licheni, formiche, pipistrelli gigante, i fanghi vulcanici, rifiuti radioattivi ecc.
L’illusione del tecno-ottimismo e la battaglia ecofemminista
In una conferenza recente Haraway parla della sua passione per le ricerche dei bio-ingegneri che hanno un interesse specifico per il biodesign, una disciplina altamente tecnologica che da un lato studia ciò che c’è di più bello e poetico come le api, ma con un interesse per ciò che potrà sostituirle, dei droni robot. Si tratta di una ricerca a volte anche militare che è a un passo dall’appropriazione e dall’obliterazione. La rimozione, non a caso, costituisce un problema di fondo della nostra società. Come vivremo, dunque, in un mondo patriarcale che crede ancora nella tecnofix, la dose che risolverà tutto? Se vogliamo sapere come si potrà vivere in un tempo di espropriazioni di massa non abbiamo che da chiederlo agli indigeni oppure ai migranti, ossia a coloro che bussano alla nostra porta perché il loro mondo è stato devastato dalla desertificazione, dalla fame o dalle guerre. Il nostro mondo non è più quello che era, e forse quel mondo non tornerà mai più. L’ecofemminismo porta alla ribalta tematiche dei nostri giorni che riguardano la giustizia sociale, le ambiguità del mondo tecnologico, l’etica ambientale, le espropriazioni di massa, nel tentativo di risvegliare le coscienze assopite nei confronti della crescente violenza, l’indigenza, il negazionismo in dirittura d’arrivo. Al tempo stesso mette in evidenza i temi del riscatto, della cura, del recupero, del riciclo, le metafore di simbiosi e la nostra stessa creatività che fanno parte della Natura della quale siamo una piccola parte, e senza la quale non possiamo neanche immaginare di sopravvivere.
Anna Detheridge
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