A Dubai il viaggio dell’artista Bashir Makhoul tra bellezza, identità e ritorno. L’intervista
Una nuova mostra, quella di Bashir Makhoul, che esplora i temi dell’identità palestinese attraverso il bene effimero della bellezza. L’intervista

Una promessa è qualcosa che cambia irrevocabilmente le circostanze, modifica le relazioni, instaura aspettative che possono essere soddisfatte o disattese. Queste parole risuonano come la premessa alla base di The Promise, la nuova mostra di Bashir Makhoul, (Galilea, 1963) alla Zawyeh Gallery di Dubai, nella quale l’artista concettuale palestinese affronta alcuni tra i temi cardine della sua ricerca: la frammentazione dell’identità, l’idea di casa come luogo perduto o conteso, e la sottile sovrapposizione tra bellezza e violenza.
La mostra di Bashir Makhoul a Dubai
Questi concetti prendono forma attraverso un uso ricorrente di petali, case e schemi ripetuti: elementi visivi che proiettano le opere in una costante tensione tra astrazione e figurazione. I petali sparsi richiamano una bellezza effimera intrisa di fragilità e memoria – come tappeti floreali in grado sia di celebrare un’unione che di commemorare una perdita – mentre sagome di case in serie evocano tanto l’archetipo rassicurante del focolare quanto la realtà precaria di insediamenti contesi. Tele e installazioni, superfici di grande seduzione estetica, dense di motivi ricorrenti e cromie raffinate, sono attraversate da ferite visive: oscurità, lacerazioni e addensamenti caotici che interrompono la compostezza dell’insieme, rivelando il lato inquieto e doloroso delle immagini. Una collezione come riflessione poetica sulla condizione del dislocamento e sull’ambivalenza di categorie come memoria, ricostruzione e ritorno. L’intervista.

Intervista a Bashir Makhoul
The Promise offre rappresentazioni esteticamente seducenti che invitano a riflessioni più profonde. Per Platone, la bellezza non era soltanto apparenza esteriore, ma riflesso del Bene; nel sufismo, un attributo divino. Cosa rappresenta per lei?
La considero una manifestazione concettuale. All’inizio ho usato la bellezza come strumento di seduzione, ma in seguito è diventata parte della sfida di unire le contraddizioni. Ciò che caratterizza il mio lavoro è una superficie apparentemente bella, unita a un sottotesto oscuro che dà sostanza all’opera. Questo dualismo è una costante nel mio lavoro.
Ho subito molte critiche perché racconto l’infelicità dei rifugiati, la morte, situazioni drammatiche attraverso tecniche, applicazioni e metafore che includono l’uso di fiori e petali. C’è una guerra in corso e lui sparge fiori. Come artista, creo con la consapevolezza di dare vita a qualcosa di bello, ma affinché l’opera funzioni, deve comprendere anche il proprio opposto.
A volte i creativi hanno paura di correre dei rischi, soprattutto nei casi di arte a contenuto sociale o politico. Ma se si vuole rompere con l’approccio tradizionale, bisogna rischiare.

Tra i contenuti di The Promise, è molto presente la rappresentazione di “casa”. È un’idea univoca, universale, o varia a seconda del Paese o dell’individuo?
Sono assolutamente d’accordo sull’universalità della nozione di casa. Come artista concettuale, lavoro sull’idea: le riduzioni formali servono a rendere le idee universali, quindi più accessibili a tutti. Il concetto di casa porta indubbiamente con sé tutte le connotazioni del senso di appartenenza, della sicurezza, della protezione — in sostanza, l’idea di identità. Per alcuni, però, quel significato può ampliarsi ulteriormente. C’è un termine tedesco, Heimat, simile, in un certo senso, all’arabo al-waṭan, che significa patria. Per me ha anche a che fare con la mia esperienza di nomade, coesiste con il senso della perdita, che è altrettanto centrale nei temi che affronto.

Ci spieghi meglio…
Alla Biennale di Venezia del 2013, ho presentato un’installazione intitolata Occupied Garden nella quale le persone partecipavano all’atto stesso dell’occupazione, appropriandosi di un giardino fittizio. Cercando un posto dove collocarle, e posizionando “egoisticamente” le scatole di cartone intagliate, avrebbero trasformato quelle scatole nelle proprie abitazioni. L’unico modo per liberare quello spazio era che qualcun altro rimuovesse una scatola per sostituirla con un’altra. Molte delle mie composizioni presentano un aspetto apparentemente risolto, definitivo — finché non arriva la rapture, la distruzione. Ogni inizio preannuncia una fine, ogni partenza è legata al tema del ritorno.
Quale significato attribuisce? Esercita la stessa malinconia del partire, come sosteneva Edmond Haraucourt?
L’idea è emersa nel libro The Origins of Palestinian Art, dove esploro l’impossibilità del ritorno. Il tempo passa, le cose e i luoghi cambiano, non ci si può immergere nella stessa acqua.
Per me ha, prima di tutto, una dimensione personale, le mie opere sono legate alla famiglia e alla profondità dei legami nonostante le distanze. Fa parte della storia palestinese, laddove il ritorno si trasforma in una nuova connessione, assume una forma diversa. Si intreccia al tema dell’identità, che non è qualcosa di risolto, ma in continuo divenire.
Come?
Penso che uno dei più grandi errori nella società palestinese sia stato pensare continuamente a proteggere la propria identità. L’identità è complessa: è personale, è nazionale, ha tante sfaccettature. Si forma nell’atto di fare arte, viene plasmata dall’artista attraverso quello che crea in quel momento. È più profonda dell’eredità che riceviamo, perché ciò che ci forma come persone è l’esperienza, che cambia costantemente.
Nella sua esperienza, la creatività risente attualmente della crescente attenzione verso il tema del politicamente corretto? Pensa abbia portato a forme di censura — o persino di autocensura inconscia — tra i creativi?
Negli ultimi quindici/vent’anni abbiamo assistito a una crescita del nazionalismo e ad uno spostamento verso destra. Ogni Paese rivendica la propria indipendenza, cresce il desiderio di attribuire più rilevanza alla visione nazionale. La censura non parte dalla società: parte dall’alto, dalle classi dirigenti. A mio avviso, quando un Paese si sposta a destra, molte libertà, tra cui quella d’espressione, vengono compresse e finiamo, consapevolmente o inconsapevolmente, per autocensurarci. Diviene un mezzo di sopravvivenza, ma è terribile essere penalizzati per aver esercitato null’altro che la propria libertà d’espressione. Chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato?
Libertà d’espressione e rivendicazione del proprio spazio continuano ad essere temi centrali nel suo lavoro.
Fondamentali, ma non dobbiamo sopravvalutare il potere dell’arte, che non è in grado di affrontare le cose nella loro totalità. Ciò che un artista può fare è produrre frammenti di realtà. Non penso che influenzi il mondo in maniera così profonda come molti credono, ma offre sicuramente un punto d’osservazione su cui confrontarsi.
Un punto che non è mai fermo, ma prosegue oltre la realizzazione dell’opera, anche quando è completa ed esposta, perché da esso scaturirà sempre qualcosa di nuovo. I fiori, le case, i petali, tutto si collega allo stesso tema, alle stesse metafore, e tutto è incompiuto. Un elemento di un lavoro riaffiorerà in un altro, in futuro. Gli spazi non sono mai veramente colmati, nemmeno in un’opera d’arte.
L’arte palestinese ha spazi da colmare, rivendica un’agenzia artistica più ampia e internazionale? Come si orientano gli artisti tra tradizioni locali e mercati internazionali, bilanciando l’eredità culturale con la loro presenza nei circuiti globali?
Non esiste qualcosa come “l’arte palestinese” in senso assoluto. Gli artisti di un determinato luogo o tempo possono detenere un’eredità o un legame con la Palestina, ma questo riguarda più la loro identità che la loro appartenenza. Varia da luogo a luogo, da esperienza a esperienza, è fluida e differenziata. Non voglio generalizzare, ma se si parla di artisti palestinesi provenienti da Gaza, non si potrà mai vederli come un gruppo omogeneo: ci saranno delle somiglianze, un vissuto comune, ma si tratta comunque di individui con esperienze differenti, sviluppi concettuali unici, e una propria estetica.
Ad esempio?
La novità è che le restrizioni alla libertà di movimento hanno portato gli artisti palestinesi a sviluppare nuove strategie per creare arte. I telefoni cellulari e le tecnologie digitali offrono strumenti molto semplici per realizzare e pubblicare opere. Poter condividere a livello internazionale il proprio lavoro da Gaza, e a volte venderlo, aggiunge una nuova dimensione al mercato palestinese. Questo, a mio avviso, rende il posizionamento nel mercato molto diverso e molto più interessante rispetto ai circuiti tradizionali. Normalmente un agente promuove il lavoro dell’artista, ma oggi è la tecnologia ad offrire una risposta alle restrizioni. E riguarda ancora lo spazio, e la possibilità di esistere. Questo, di per sé, è già un atto di resistenza.
Dubai // Fino al 30 giugno 2025
The Promise
Zawyeh Gallery
Claudia Pellicano
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