Curatela militante e attenzione verso i giovani. Intervista a Osservatorio Futura 

Abbiamo intervistato Francesca Disconzi e Federico Palumbo, fondatori dello spazio indipendente Osservatorio Futura di Torino. Ecco com’è il loro approccio curatoriale

Osservatorio Futura è un collettivo curatoriale formato da Francesca Disconzi e Federico Palumbo. Colleghi di liceo, dopo avere intrapreso a Milano due percorsi leggermente distinti, la loro collaborazione in ambito artistico prende vita quando decidono di curare come duo una mostra a Brescia. Nel 2020 nasce Osservatorio Futura, un magazine online che presto si trasforma in un luogo fisico situato in Via Carena 20 a Torino. Lo spazio indipendente è culla di numerosi progetti sempre firmati a quattro mani.  Osservatorio Futura è un centro di ricerca e spazio espositivo fluido. Un progetto in continua evoluzione composto ad oggi da un archivio, una fanzine periodica e spazio espositivo a Torino. Come da manifesto, la finalità del progetto è la valorizzazione della ricerca artistica emergente, tramite un approccio critico-militante.  

Intervista a Osservatorio Futura 

Per diventare curatori spesso non esiste un iter prestabilito ed è molto variabile a seconda dalle esperienze personali di ognuno. Parlatemi del vostro percorso formativo e da dov’è nata l’esigenza che vi ha portato a esplorare questa pratica. 
Ci siamo conosciuti frequentando il Liceo Artistico senza avere minimamente idea di quale fosse il ruolo del curatore o quali fossero effettivamente le professionalità del mondo dell’arte. Successivamente abbiamo frequentato entrambi l’Accademia Albertina, per poi dividere le nostre strade a Milano, dove abbiamo frequentato un master in Economia e una magistrale in Law, Economics and Institutions (Francesca) e il corso magistrale di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali a Brera (Federico).  Dopo aver curato come duo la nostra primissima mostra a Brescia, grazie ad un nostro professore dell’Accademia, abbiamo capito che ci interessava approfondire gli aspetti curatoriali e critici del contemporaneo. Nel 2020 è nato Osservatorio, prima come magazine online, per poi diventare un vero e proprio progetto strutturato, con uno spazio espositivo.  Possiamo quindi dire che la nostra esigenza di osservare e indagare ciò che stava muovendo in un determinato periodo storico la nostra generazione di artisti è stata spontanea e che il nostro percorso è andato avanti in modo naturale per prove ed errori: ci siamo formati facendo!  

Che significato ha per voi la parola “curare”, e come si declina nell’arte contemporanea? 
Federico Palumbo: Nel contemporaneo il termine “curare” è, come tante altre parole, iper-inflazionato. Tutti curano qualche contenuto perché tutti in realtà producono qualcosa. L’arte allora si deve adattare, o meglio, differenziare da questa sfera iper-satura. Curare una mostra o un progetto vuol dire, per me, mettersi a disposizione dell’altra persona e allo stesso tempo mettere a disposizione le proprie competenze per far sì che l’artista possa lavorare in serenità, togliendoci di dosso la smania del produrre per dopare l’atto del consumare.  

Francesca Disconzi: Per me la curatela si accompagna alla critica. Abbiamo da subito trovato concettualmente interessante l’approccio militante e provato a riportarlo nel nostro piccolo, indagando innanzitutto la nostra generazione.  

Curare un progetto vuol dire quindi sperimentare, con noi stessi e gli altri, indagare i propri limiti e quelli della ricerca, creando uno spazio di possibilità che può essere anche soggetto al fallimento. Insomma, la bellezza di questa pratica risiede nei rapporti umani che si creano. 

Nella vostra esperienza e visione, che rapporto si dovrebbe instaurare tra artista e curatore? 
F. P.: Nel catalogo della nostra prima mostra da Osservatorio, nel descrivere il ruolo che mi auspicavo di avere come curatore, scrivevo per immagini: una rapina, gli artisti dentro la banca e il curatore fuori a fare ‘da palo’, tenendo caldo il motore della macchina destinata alla fuga. In questa ‘scena’, il curatore ha sì un ruolo fondamentale per la riuscita della rapina perché senza di lui gli artisti correrebbero il rischio di venire beccati; ha però un ruolo ‘secondario’ rispetto all’azione protagonista della rapina, svolta invece dagli artisti. Insomma, il rapporto che si deve instaurare è di stima reciproca, fiducia e alleanza totale fra le parti. 

F. D.: Assolutamente un rapporto sinergico e innanzitutto di stima. La nostra idea di critica militante è proprio questa: crescere insieme agli artisti, divertirci e condividere storie ed esperienze. Chiaramente non succede con tutte le persone con cui collaboriamo, ma è sempre quello che ci auspichiamo. 

Parlatemi di un progetto che avete realizzato, sintesi dei vostri interessi e della vostra ricerca. Cosa vi interessa approfondire tramite il vostro lavoro? 
Abbiamo curato tantissimi progetti insieme ed è davvero difficile menzionarne solo uno che possa restituire il nostro approccio generazionale e attitudinale. Forse le mostre collettive sono quelle in cui abbiamo potuto esplicitare meglio l’idea e la pratica di Osservatorio, perché è una dimensione che ci permette di rapportarci con artisti diversi indagando una tematica specifica.  Abbiamo invitato un po’ di artisti nello spazio I e II (La curatela Militante) e Non rimane che volare (realizzata insieme a Giuseppe Arnesano) sono indubbiamente alcuni esempi lampanti, perché siamo andati oltre la dimensione della ricerca individuale per fare invece una mappatura collettiva e condivisa. Un altro progetto che ci sentiamo di menzionare è la nostra fanzine, perché rappresenta al meglio l’interesse critico ed editoriale che ci ha mosso fin da subito. Non a caso è la parte di progetto che è mutata di più nel corso degli anni, passando dall’essere un magazine online a una fanzine un po’ punk autoprodotta e cartacea.  In generale, Osservatorio è un’estensione delle nostre singole pratiche e qualsiasi cosa facciamo, anche inconsapevolmente, racconta una nostra urgenza. 

L’arte è da sempre parte integrante di ogni cultura e società. Nella contemporaneità, che ruolo sociale pensate che abbia un curatore e quali sono le sue sfide? 
F.P.: Scegliere con quali artisti lavorare è già parte del lavoro. Decidere quali progetti e quali opere rappresentano un’urgenza è la sfida più grande: siamo in tanti e tutti abbiamo qualcosa da dire. Molto spesso questa cosa che vogliamo dire è anche interessante; dunque è importante prendere posizione – qualunque essa sia – ed essere bravi nel rispondere solo ad alcune domande che il contemporaneo stressa, cercando di raccontare bene. Questo ovviamente non vuol dire offrire risposte, raramente l’arte lo fa, e quindi creare spazi di possibilità ‘alternativa’. 

F.D.: Al momento ho una visione abbastanza distopica del mondo che stiamo abitando e che ci troveremo ad abitare in un futuro prossimo. Un curatore, così come un artista o chiunque lavori con la cultura, dovrebbe svelare altri mondi e creare immaginari al di fuori dell’ideologia dominante. È un periodo storico davvero complesso e nebuloso che ci lascia con tantissime domande, ma non possiamo sempre farcele tra noi e dovremmo allargare il nostro campo d’azione, uscendo da dinamiche elitarie e classiste. Ecco, forse il ruolo dei curatori dovrebbe essere quello di avvicinarsi maggiormente alla vita vera. 

  

C’è un progetto recente di una giovane figura curatoriale che ammirate? Quale? 
Ci sono tantissimi giovani colleghi che portano avanti progetti molto validi con tantissimo coraggio e determinazione. Di getto, rimanendo su Torino, ci sentiamo di citare il lavoro portato avanti da Gheddo, un team di giovani curatrici e curatori che lavora per realizzare mostre di artisti che frequentano o hanno appena terminato l’Accademia dentro spazi indipendenti o gallerie della città: un progetto bellissimo che colma un gap. 

Qual è una delle mostre che vi ha colpito maggiormente tra quelle viste nell’ultimo anno? Perché?  
F.P.: Ne dico tre (in galleria, in museo e in uno spazio indipendente): Anna Boghiguain da Franco Noero; Jacopo Benassi alla GAM; Raffaele Cirianni e Miriam Montani da Carozzeria delle Rose (In Fiamme). Tutte e tre le mostre erano/sono dirette e senza fronzoli, non modaiole e fighette. In più, riuscivano/riescono a far emergere un certo grado di mistero che mi affascina sempre tanto. 

Ritratto di Francesca e Federico fotografati davanti Osservatorio Futura da Davide D'Ambra
Ritratto di Francesca e Federico fotografati davanti Osservatorio Futura da Davide D’Ambra

F.D.: Rimanendo sul territorio torinese direi il progetto espositivo di Khalil Rabah alla Fondazione Merz a cura di Claudia Gioia. Una mostra stupenda e commovente in un periodo storico così delicato in cui le istituzioni in parte censurano il genocidio. Anche se, a prescindere dalla Storia, è un progetto talmente forte che mi colpirebbe anche tra cent’anni.  

Quali sono alcuni artisti giovani che vi piacciono particolarmente o con i quali collaborereste, e perché? 
F.P.: Di ‘giovani’ artisti che mi piacciono ce ne sono davvero tanti. È soprattutto questo che ha spinto me e Francesca a fondare Osservatorio Futura. La ricerca contemporanea è davvero forte, variegata e professionalizzata. Visto che ormai abbiamo lavorato con tanti artisti, te ne dico un paio con cui ancora non ho avuto modo: Giuliana Rosso e Paola Angelini. 

F.D.: Mi piacerebbe allargare la ricerca fuori dall’Italia, per vedere che aria tira tra i nostri coetanei all’estero.  

Guardando la storia dell’arte, c’è una corrente, un movimento, un artista o un art worker del Novecento al quale vi sentite particolarmente vicini? 
F.P.: Gino De Dominicis ha cambiato il mio modo di intendere l’atto artistico; mi ha permesso di capire quale deve essere il motivo che ci spinge a fare arte: sovvertire i limiti e il potere. Harald Szeemann, invece, mi ha fatto pensare “voglio fare il curatore”.  

F.D.: Ce ne sono tantissimi, ma il primo che mi viene in mente è Piero Gilardi, sia per la sua militanza, che per la sua sensibilità. La mia biopolitica è davvero un capolavoro e lui è stato un visionario, tra i primi artisti italiani a fondere in modo coerente pratica, vita e dimensione collettiva. 

Quali sono i libri che hanno maggiormente segnato il vostro percorso professionale o personale e perché?  
F.P.: Il territorio magico di Achille Bonito Oliva è un saggio che mi ha affascinato prima ancora di riuscire davvero a capire il senso totale, infatti l’ho dovuto leggere e studiare parecchie volte. Anche Controcorrente di Laura Cherubini mi ha influenzato parecchio, così come diversi testi di Maurizio Calvesi ed Elio Grazioli. Insomma, mi risulta difficile fare una classifica, quindi mi fermo qui. 

F.D.: Un libro che ha segnato la mia crescita personale è stato indubbiamente Impero di Toni Negri; qualcuno può pensare che si tratti di teorizzazioni obsolete, ma io credo che in realtà siano attualissime. Inoltre penso all’importanza che hanno avuto tutti i romanzi e saggi che ho letto, in modo particolare i libri di Calvino da cui sogno di rubare impunemente la leggerezza nello scrivere.  

Ci sono tantissimi saggi e scritti che invece mi hanno formata professionalmente, potrei fare una lista lunghissima ma ne cito uno su tutti: Inferni artificiali – La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa di Claire Bishop. 

Viola Cenacchi 

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Viola Cenacchi

Viola Cenacchi

Viola Cenacchi (Bologna, 1999) vive e lavora a Milano. È assistente curatore e coordinatrice del Padiglione Albanese per la Biennale Arte 2024 di Venezia “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”. È assistente curatore e social media manager del progetto Luci d’Artista…

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