La critica d’arte e la sua imprescindibilità. Gli effetti sul sistema dell’arte

Non è vero che quelle della critica d’arte sono parole al vento. Il problema è l’approccio avalutativo di troppi scritti. Che andrebbe ormai superato

Stupisce che il dibattito sulla critica d’arte venga definito “infinito”, eufemismo che evidentemente sta per “annoso”. Stupisce perché il tema non è affatto annoso. Se ne parla, infatti, apertamente solo da poco tempo. E si sa, tra una discussione che avviene sottotraccia e una che si sviluppa alla luce del sole passa tutta la differenza del mondo. Semmai, c’è da augurarsi che il confronto prosegua. Anche perché la sensazione è che appassioni.
Stupisce, poi, leggere di un curioso manicheismo concernente il concetto di utilità. Una divaricazione secondo cui la critica sarebbe “utile” quando “compartecipa” al fatto artistico, ma non quando interviene successivamente – e per così dire esternamente – rispetto ad esso, analizzandolo e giudicandolo. Tradotto: le parole della critica, quando terze e valutative, sono parole al vento. Ma è un assunto che non convince. E non aiuta, quindi va rigettato doppiamente. Non convince, perché si basa su un presupposto infondato. Infatti, è tutto da dimostrare che il cosiddetto ‘sistema dell’arte’, e il mercato, si disinteressino degli interventi di una critica esplicita e appassionata. Certi effetti – quelli di cui stiamo parlando sono di questo tipo – si ingenerano col tempo e per vie misteriosissime. 

Gli effetti della critica d’arte

Quindi il fatto che non siano misurabili col righello, e rilevabili sul momento secondo un’idea solo contingente del feedback significa zero. Ma poi, anche ragionando al negativo, gli interventi critici tranchant sono così rari che la prova provata della loro inutilità non c’è; quindi, non si capisce di cosa si stia parlando. In secondo luogo, come detto, è una presa di posizione che non aiuta. Perché sa più di litania conservativa che di sasso nello stagno, perciò anziché scuotere penne assopite, le scoraggia ulteriormente. Invece chi compra arte, checché se ne dica, legge d’arte; pertanto, sarebbe ben contento di imbattersi in scritti in cui la critica si espone.
Di recente chi scrive ha assistito a una scena in cui un collezionista, rivolgendosi a dei redattori di magazine d’arte e facendo riferimento a una recensione, ha esclamato quanto segue: “Voi siete moltiplicatori di valore!”. Beh, non sembrava li stesse prendendo in giro, né aveva l’aria del romantico nostalgico, tutt’altro. Ok, si stava parlando di una recensione favorevole, ma per lo stesso motivo si deve ritenere che effetti viceversa ridimensionanti si ingenerino a seguito di stroncature. Bisogna ragionare in termini meno contingenti e di superficie quando si affrontano questi argomenti. Perché, ok, l’ultima parola ce l’ha il mercato, ma è parola volubile, per cui artisti osannati per un tempo x (spesso un lustro o anche meno) vengono poi affossati, e viceversa. Ma allora, in un contesto così instabile non si vede perché gli scritti della critica non possano incidere, o almeno influenzare certi indirizzamenti. 

I collezionisti e filantropi Maria Manetti Shrem e Jan Shrem. Courtesy Sotheby's
I collezionisti e filantropi Maria Manetti Shrem e Jan Shrem. Courtesy Sotheby’s

Critica e sistema dell’arte

L’arte emette sentenze sul lungo periodo, bisogna sempre ricordarlo. In quest’ottica la critica può aiutare il cosiddetto ‘sistema dell’arte’ a non sbandare, o almeno a non farlo in modo rovinoso, guardando oltre. Non solo, però, agendo dietro le quinte, o curando mostre, ma anche producendo scritti perentori. Viene da dire ‘è la ‘separazione dei poteri’, bellezza!’.
Alfonso Belardinelli, solo poche settimane fa, a dimostrazione del fatto che il tema è attuale, quindi tutt’altro che annoso, è intervenuto sull’argomento con parole di fuoco. Eccole: “La critica d’arte, quando si tratta di arte contemporanea, è ridotta a descrizione avalutativa e interpretazione apologetica; mai che si parli di non riuscita e di fallimento […]” (Giudicare è diventato tabù e la critica televisiva è morta. Persino il docufilm su Gaber ne è rimasto vittima, e non è un buon segno, “Il Foglio”, 4 gennaio 2024). Ovviamente è una generalizzazione, ma fa riflettere. Perché rende incomprensibili, e persino isterici, certi toni stizziti contro la stroncatura, la “famigerata recensione negativa” – perché poi famigerata? –, visto che non ne siamo certo invasi. Come si fa infatti, oggi, a prendersela con la stroncatura? Sarà dal secolo scorso che non se ne leggono! Se non in rare, rarissime occasioni. E comunque, un’egemonia della stroncatura nessuno l’ha mai vista. Se poi il punto è la sopravvalutazione di questo tipo di scritto, beh parliamone. Perché nessuno pensa che la stroncatura sia la quintessenza della critica. Ma detto questo, il poterne leggere più di qualcuna, e costantemente, non è solo aspettativa legittima, è il minimo sindacale, visto che si parla d’arte. Quindi piuttosto che tuonare contro l’equazione “critica=stroncature”, priva di riscontri nel mondo reale, lo si dovrebbe fare contro l’equazione “critica=tutto fuorché la stroncatura”, un filo più imbarazzante.

Guardare alle collezioni con gli occhi dei collezionisti
Guardare alle collezioni con gli occhi dei collezionisti

Critica e politica

Poi c’è il piano “politico”. Per questo si diceva della “separazione dei poteri”, non per fare impressione con del massimalismo, ma perché si tratta effettivamente del principio-guida su cui poggiano libertà civili e democrazia. Perciò va declinato in ogni ambito, compreso quello culturale, dove l’equivalente della separazione dei poteri è la separazione dei punti di vista. Quindi che la critica abbia un proprio campo d’azione, autonomo, che prescinde da vincoli di ‘compartecipazione’, non è solo sacrosanto, è necessario, pena la credibilità del ‘sistema’ cui si riferisce. Ma pistolotti a parte, la sensazione è che un cambio di paradigma sia alle viste su questa questione. Nello specifico, pare giunta al termine la stagione dello scritto meramente descrittivo, o al più solo ermeneutico, che ha dominato l’editoria d’arte contemporanea negli ultimi decenni. Il mutato setting del panorama mediatico, infatti, non le è propizio. La pervasività di sguardo del web copre ormai tutto, eventi d’arte compresi, sicché la critica non è più di fronte a un display che manca, come un tempo. Quindi non può più limitarsi a un descrivere e a un decrittare che raramente aggiungono qualcosa a quanto già si vede e si sa. Anche per questo si comincia a parlare di ‘accanimento ermeneutico’ – lo ha fatto di recente la sociologa francese Nathalie Heinich nel saggio Il paradigma dell’arte contemporanea – in riferimento all’arte contemporanea. Era ora.
Quindi, altro che inutilità, la critica d’arte è chiamata a incidere di più, non di meno. Dire che è arrivato il suo momento forse è troppo, ma impedimenti per un suo rilancio non se ne vedono. Anche certi colpi di coda di un’epoca che appare al tramonto sembrano affievolirsi. Il riferimento è all’attacco, andato avanti per anni, al format della recensione, che ne ha prodotto la marginalizzazione, qualche volta il taglio. Non però una sua soppressione generalizzata, che oggi appare improbabile, se non impensabile. Evidentemente ci si sta rendendo conto che sarebbe stupido buttare il bambino con l’acqua sporca, come si dice. Questo perché diventa sempre più chiaro che il ferro vecchio non è la recensione in sé, ma quella avalutativa. 

Pericle Guaglianone

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Pericle Guaglianone

Pericle Guaglianone

Pericle Guaglianone è nato a Roma negli anni ’70. Da bambino riusciva a riconoscere tutte le automobili dalla forma dei fanali accesi la notte. Gli piacevano tanto anche gli atlanti, li studiava ore e ore. Le bandiere erano un’altra sua…

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