Il museo nascosto. Lo studio-museo Salvatore Meo a Roma
Nel cuore di Roma c’è una luogo da riscoprire: lo studio-museo appartenuto a Salvatore Meo, artista di origini americane scomparso nel 2004
Lo studio è il luogo della genesi, è lo spazio (segreto e non) in cui avviene fino in fondo il miracolo dell’arte. Anche se negli ultimi decenni, cambiando metodi e approcci, gli artisti hanno generato nuove tipologie di relazione con esso, uscendo dai suoi confini ed entrando nella sfera nomade e pubblica del fare creativo, lo studio continua a essere, nell’immaginario collettivo, un perimetro di magiche imprese. Accessibili e non, gli studi sono luoghi da visitare perché spesso custodiscono l’anima di chi li ha vissuti e vive, luoghi in cui poter interagire con opere, oggetti, amuleti e semplici reperti di un’esistenza trascorsa in stretta congiunzione con l’arte e le sue declinazioni. Arte e vita, quindi.
LO STUDIO DI SALVATORE MEO A ROMA
Ed è ciò che si avverte entrando nello studio di Salvatore Meo a Roma. Pochi passi dal caos turistico di Fontana di Trevi ed ecco che, salite alcune rampe di scale e scansando le lenzuola di un b&b, è possibile assistere a un’autentica rivelazione: ogni millimetro di questo appartamento costituito da una manciata di stanze è rimasto com’era quando Meo, artista americano classe 1914, morto a Roma nel 2004, ci lavorava giornalmente. Due mezze bottiglie di plastica, schiacciate e quindi modificate, sono inquadrate in un box di legno; segni nevrotici si muovono nello spazio bidimensionale di un supporto di recupero, componendo grammatiche nuove e impenetrabili; sassi e altri profili contundenti vivono in strutture autoportanti e poi dipinti segnici, vortici fragorosi in grado di elaborare nuovi limiti.
L’ARTE DI MEO
Pionieristicamente Meo comprende le potenzialità degli scarti, perciò pratica compulsivamente l’assemblaggio per dare nuova linfa a ciò che non ce l’ha più, costruendo – da autentico homo faber qual è – un repertorio maniacale di nuove immagini, teatrini di una vita domestica impossibile in cui convivono frammenti di bambole con reti di ferro, bottiglie dalla forma collassata e plastica assembrata a pietre e legni.
Sulla scia delle esperienze di Schwitters – avverte Mario Diacono nel 1965 – sperimenta “la pittura nella dimensione dell’uomo raccoglitore”. A dare il benvenuto ai visitatori c’è la curatrice Mary Angela Schroth, amica di Meo e testimone oculare della sua esperienza esistenziale nel segno dell’arte, nonché angelo custode di queste stanze e direttrice artistica di Sala 1 a Roma, il più antico spazio non profit d’Italia. Racconterà con passione e competenza la storia di questo artista che il sistema dell’arte ha accantonato, invitando a osservare le accumulazioni a parete o sui mobili, ma anche le complessità che sussistono per rendere fruibile e sostenibile un luogo di questo genere. Sperando che nel mentre un museo della città – magari proprio il Macro diretto da Luca Lo Pinto – possa rendere noto al grande pubblico il percorso straordinario di un artista che a Roma ha dato tanto.
‒ Lorenzo Madaro
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #26
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