Bertinotti, Warhol e l’arte borghese

Ha fatto scalpore la presenza delle serigrafie di Warhol nella casa di Bertinotti. Ma perché l’arte è diventata sinonimo di borghesia e di un lusso per pochi?

Premessa: questo non vuole essere un articolo politico. Nel senso che non parla di Fausto Bertinotti
Non è neanche un articolo sull’arte in senso stretto, nel senso che non parla del valore delle serigrafie di Andy Warhol. Questo è un articolo che parla di fallimento. Del fallimento di un percorso che l’arte ha preso da tempo e che merita una riflessione.
Succede che intervistino uno storico leader politico e che lo fotografino a casa sua. Succede che qualcuno commenti l’incongruità tra un vecchio comunista e delle serigrafie di Warhol. Succede che lui risponda e racconti del perché quei quadri, come altri, siano lì. Con lui. (Peraltro Bertinotti, fine esperto d’arte e gran frequentatore di mostre, ha con ogni probabilità una collezione che va ben oltre quei multipli, ndr).
Non mi interessa, l’ho detto, fare un discorso politico, ma soffermarmi su un altro particolare.
Sul fatto che possedere arte sia qualcosa di cui si debba rendere conto. Qualcosa che deve essere giustificato. Certo, questo vale se quelle opere sono rubate o riciclate ma non è questo il caso. O quantomeno il punto. Il punto è che possedere opere connota le persone, e non per il motivo che dovrebbe. Nel caso specifico, le rende borghesi.
L’arte, in pratica, è vista come un passatempo per i ricchi, come un investimento (buono o cattivo, non importa), qualcosa che chi può compra e morta lì. Qualcosa che ha a che fare con il denaro, di certo di più che con la cultura. La prima idea che salta in testa, quindi, non ha a che fare con l’esperienza artistica. Lo stupore non nasce dal fatto che un uomo possa essere interessato all’arte, al messaggio che questa trasmette. No. Il primo pensiero è legato al prezzo delle opere, al fatto che ce le si possa permettere e che questo sia coerente con un passato discorso politico.
Un fallimento, dicevo. Il fallimento di ciò che il sistema dell’arte ha trasmesso in questi anni con buona pace di chi cerca di convincerci che gli operatori del settore sono operatori artistici e che questo dovrebbe essere un settore da proteggere. Lo è. Lo dico chiaramente. Lo è quando fa davvero ciò che dovrebbe fare e che a parole sta facendo. Ma la realtà è diversa e i risultati si vedono. Perché se la percezione che arriva all’esterno è questa qualche domanda ce la si deve porre.

È così illogico pensare che non tutto sia arte a partire dal circo che ruota attorno a questo incredibile mercato?

È così illogico chiedersi se tutto ciò che gli artisti producono e gallerie e case d’asta propongono abbia davvero valore e quand’anche lo abbia perché all’esterno questo valore non traspare? E ancora: dov’è la cultura nell’acquisto di un’opera d’arte? È così illogico pensare che non tutto sia arte a partire dal circo che ruota attorno a questo incredibile mercato? Proviamo a pensare agli opening senza buffet e forse troveremo la risposta.
Qualche giorno fa ho pubblicato un articolo che scrissi con la sociologa Giovanna Romano un anno fa. Scrivevamo, già allora, che “occorre cambiare condotta perché non è mai possibile lasciare che le cose, la cultura in primo luogo, si fossilizzino e si riducano a schemi non più contemporanei e men che meno adatti al futuro che verrà. Non basta indignarsi ma occorre fare e fare bene. Occorre ripensarsi come movimento che ha impatto sociale, economico e politico e come tale ha la responsabilità di sviluppare una analisi critica di ciò che non è più valido. Nella forma e nella sostanza. Servono nuovi modi di comunicare la cultura, di trasformarla perché abbia al centro le persone. Per provare a segnare una via nuova. Nuove strade che scardinino l’idea elitaria che la cultura spesso si cuce colpevolmente addosso, qualcosa di bello che ci porti fuori dal cliché dei convegni e delle lezioni dall’alto, dallo sbandieramento di numeri e statistiche, dalle frasi fatte e dai luoghi comuni senza finire, nel contempo, in una palude pauperista e di basso profilo. Servono condivisione e inclusione, serve l’idea di una cultura a servizio a partire dal linguaggio”.
Serve che la cultura e in primo luogo l’arte tornino a essere soggetto politico. Che tornino a darci una risposta a questa semplice domanda: in che modo la cultura cambia ancore la società? Perché collezionare opere d’arte non deve essere qualcosa di cui discolparsi ma il segno di uno spirito che non si conforma.

CULTURA E POLITICA

E allora sì che questo articolo diventa politico. Ma non in funzione di vecchi schemi ottusi alimentati da un settore oggetto della propria vanità e antagonisti beceri senza cognizione di causa. È politico perché richiede all’arte di farsi soggetto sociale e non solo uno spettacolo riservato a pochi, fatto di preview esclusive, prezzi nascosti, inaugurazioni per cerchie ristrette, salvo poi dichiararsi operatori culturali di una cultura per tutti.
L’arte è educazione e studio e deve recuperare la propria capacità critica. “Parlare bene è una filosofia. È difendere i valori più alti della comunità; è la libertà stessa”, ha scritto Nicola Gardini in un saggio sulla bellezza del latino (Viva il latino, Garzanti, 2016).
Ecco, l’arte deve tornare a parlare bene: deve abbandonare i sensazionalismi, la ricerca del successo istantaneo, la politica da reality, gli affari che se non sono milionari sembrano non esistere. Deve ridarsi credito prima che sia troppo tardi. Tornare a essere un valore al di là del proprio prezzo. Un valore da poter mostrare con orgoglio. Senza colpa alcuna.

Franco Broccardi

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Franco Broccardi

Franco Broccardi

Dottore commercialista. Esperto in economia della cultura, arts management e gestione e organizzazione aziendale, ricopre incarichi come consulente e revisore per ANGAMC, Federculture, ICOM, oltre che per musei, teatri, gallerie d’arte, fondazioni e associazioni culturali. È coordinatore del gruppo di…

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