Un’Australia agli antipodi della storia. A Milano

PAC, Milano – fino al 9 febbraio 2020. All’interno della rassegna dedicata a scenari artistici di altri continenti, “Australia” indaga il rapporto tra passato aborigeno e presente multiculturale. Con una carrellata di artisti contemporanei. Il racconto in prima persona di Margherita Zanoletti.

Vado a vedere Australia. Storie dagli antipodi al PAC con il trasporto, più che la curiosità, di chi ha vissuto a Sydney per cinque anni. Ne esco stordita, reduce da un flash back immersivo e trasformativo. Sinora Milano non aveva mai ospitato una rassegna così radicale, così scomoda.
Partiamo col dire che Eugenio Viola, curatore (con Judith Blackall) dell’esposizione, ha un intento preciso: non tanto proporre un’idea monolitica, quanto scardinare i preconcetti del pubblico italiano a proposito dell’Australia e in particolare della cultura aborigena. Niente dot painting, niente danze tradizionali, niente didgeridoo e boomerang decorati. Non c’è paccottiglia turistica, non c’è edulcorazione storica. A dire il vero, non c’è neppure una sognante digressione su cosa fosse la sapienza aborigena pre-coloniale. Qui si parla di genocidio, se ne vedono le testimonianze creative, i racconti sofferti e meditati di voci fuori dal coro, ma ben inserite nell’art system contemporaneo. È quindi una miscellanea compensativa (ma non consolatoria), “di parte”, che favorisce gli artisti nativi. Con qualche eccezione funzionale a rispettare le promesse del titolo: “Australia”, e non “Australia aborigena”.

Australia. Antipodean Stories. Exhibition view at PAC, Milano 2020. Photo Nico Covre - Vulcano

Australia. Antipodean Stories. Exhibition view at PAC, Milano 2020. Photo Nico Covre – Vulcano

GLI ARTISTI IN MOSTRA AL PAC

Perché l’Australia, di per sé e senza appellativi, è aborigena. Le mappe esposte al PAC (a partire da quella dipinta da Richard Bell, in apertura di mostra) sono black, a smascherare la grande bugia che giustificò l’occupazione e lo sterminio degli abitanti di una terra definita dagli invasori nullius, ovvero “di nessuno”. In una costante tensione tra passato e presente, spiccano le fotografie spiazzanti di Destiny Deacon (portata a Milano vent’anni fa da Raffaella Cortese) e gli autoritratti in maschera di Christian Thompson; i due monumentali disegni a grafite di Vernon Ah Kee, che trascrivono le fustigazioni corporee subite dagli aborigeni, e lo striscione provocatoriamente noise di Marco Fusinato, This is not my world. D’obbligo la presenza di un artista storicizzato come Mike Parr, con il suo luttuoso murale che piange gli incendi dolosi degli ultimi mesi, accanto a due autoritratti fotografici degli Anni Settanta nel bush (la steppa australiana), scattati dopo gli incendi controllati, provocati regolarmente e da millenni dagli aborigeni per fertilizzare la terra. L’unica artista indigena che lavora con un linguaggio più tradizionale è Nyapanyapa Yunupingu, i cui modernissimi disegni bianchi su acetato nero riprendono un’iconografia simbolica tramandata da millenni, accanto alla potente installazione della “bianca” Fiona Hall dedicata al genocidio degli abitanti originari della Tasmania nel 1830.
Una mostra politica, quindi, che mette al centro le poetiche performative: siano esse dipinti, video, fotografia o interventi scultorei e installativi. Un viaggio anticatartico e antiesaustivo in un groviglio di esperienze, etnie, lingue, religioni e folclori. Una rilettura che, a chi in Australia c’è stato e a chi non ci andrà mai, apre lo sguardo agli antipodi della storia sinora raccontata.

Margherita Zanoletti

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Margherita Zanoletti

Margherita Zanoletti

Con Francesca di Blasio ha pubblicato la prima traduzione italiana di “We are Going” dell’autrice e artista aborigena australiana Oodgeroo Noonuccal; con Pierpaolo Antonello e Matilde Nardelli ha co-curato “Bruno Munari: the Lightness of Art”. Dal 2004 idea e collabora…

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