Leprotti di vari colori e dimensioni; il profumo delle erbe aromatiche e un piccolo giardino all’inglese perfettamente simmetrico: se non fosse per la presenza, discreta ma attenta, delle guardie carcerarie, sembrerebbe di essere precipitati – come Alice – in una dimensione altra, campestre e idilliaca. Certo, quella di Castelfranco Emilia è una “casa di reclusione a custodia attenuta” – burocratese per dire che i detenuti possono uscire per recarsi al lavoro oltre che essere impegnati nelle differenti attività svolte nell’istituto, dall’orto all’allevamento cunicolo a vari call-center –, ma è pur sempre un carcere.
Qui il Teatro dei Venti ‒ la compagnia modenese guidata dal regista Stefano Tè, fondata nel 2005 con una vocazione dichiarata per il teatro di strada, debitamente rivisto e ripensato, come testimonia il loro pluripremiato Moby Dick – realizza progetti permanenti già dal 2006, acquisendo un’esperienza che, dal 2014, si è arricchita con l’analogo lavoro presso il carcere di Modena – istituto affollato e assai complesso.
Non si tratta tanto – o, quantomeno, non soltanto – di laboratori finalizzati a offrire ai detenuti strumenti alternativi e creativi di elaborazione positiva del proprio vissuto, quanto di progetti sottesi da una consapevole e salda professionalità.
Teatro “sociale” dunque, e pure in qualche misura “terapeutico”, ma, in primo luogo “teatro”, pratica artistica corale implicitamente mirata a offrire uno sguardo “altro”, introspettivo e più consapevole, sulla realtà, in questo caso quella di un luogo circoscritto e “chiuso”, all’interno del quale agli “ospiti” è concesso molto tempo per riflettere sulle proprie esistenze.

L’INQUIETUDINE DI ULISSE
Nell’ambito della X edizione di Trasparenze Festival – organizzato dallo stesso Teatro dei Venti a Modena –, la casa circondariale di Castelfranco Emilia ha quindi ospitato otto repliche – alcune destinate agli alunni delle superiori, una agli stessi ospiti dell’istituto – di Odissea, spettacolo frutto del lavoro realizzato in tre anni con i detenuti-attori e coprodotto da ERT.
Muniti di cuffie, gli spettatori sono invitati a compiere essi stessi un viaggio all’interno dei vari ambienti del carcere: il succitato giardino, ma anche la serra, l’ex falegnameria, i camminamenti interni. Luoghi che rimandano alle successive tappe dell’accidentato itinerario di Ulisse, ma che la concreta presenza degli attori trasforma in spazi eminentemente simbolici e cerebrali, correlativi oggettivi di tenebre e illuminazioni che si alternano e finanche si sovrappongono nelle menti dei performer.
Ulisse e Polifemo, ma anche Telemaco e ovviamente i compagni di guerra e di avventura, e poi Penelope – accanto agli attori-detenuti, ci sono i membri della compagnia, Alessandra Amerio, Greta Esposito, Vittorio Conticelli – abitano quegli spazi con la loro esplicita e sonora fisicità ‒sottolineata pure da costumi né decorativi né didascalici, bensì inventivamente evocativi –, con la voce e il suono.

L’ODISSEA IN CARCERE A CASTELFRANCO EMILIA
Il regista Stefano Tè – anche autore della drammaturgia, insieme a Vittorio Continelli e Massimo Don – sa individuare e valorizzare il particolare talento di ciascuno dei suoi performer, riuscendo ad affiancare e amalgamare linguaggi e tonalità eterogenei in un discorso coerente e coeso.
Danza, mimo, recitazione, musica convivono così armoniosamente in uno spettacolo eclettico e nondimeno incentrato sulla figura di Ulisse, uomo divorato da un’inquietudine egotica e invincibile, in fondo auto-distruttiva: un’attitudine alla vita che, benché in forme diverse, ben conoscono i performer in scena.
Una curiosità morbosa, una concentrazione sui propri esclusivi bisogni che allontana inevitabilmente dall’altro ‒ la moglie fedele che fa e disfa la tela, i famigliari, gli amici, la comunità cui si appartiene per nascita o destino – condannandosi così alla solitudine.
I versi di Omero, ma anche il canto XXVI dell’Inferno dantesco e l’eco delle esperienze degli interpreti – detenuti e non – concorrono a plasmare una drammaturgia che, se da una parte denuncia quella intrinseca vocazione al “folle volo” che sembra condannare inesorabilmente all’infelicità l’uomo, dall’altra svela e celebra quell’altrettanto innato istinto di sopravvivenza che non si limita soltanto a garantire le esigenze primarie, bensì contiene in sé pure il necessario bisogno di relazionarsi non opportunisticamente con l’altro.
‒ Laura Bevione
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