Il futuro del teatro. Lettera aperta di Francesco Pititto, presidente di Lenz Fondazione

Continuiamo la nostra indagine sul futuro del teatro al tempo del Coronavirus, pubblicando sulle nostre pagine le riflessioni di Francesco Pititto, presidente e co-direttore artistico di Lenz Fondazione, sull’attuale condizione del teatro in Emilia-Romagna e oltre.

Il teatro è corpo fisico, l’azione del corpo nel campo di una scena crea senso ed emozione, empatia, denuncia e rinuncia, antropologia e filosofia, storia e presente, qualche volta il futuro. Il corpo umano rappresenta l’immagine riflessa di un corpo umano, il corpo dell’attore rappresenta la rifrazione di un altro corpo umano, che appartiene a un altro tempo, a un’altra storia, a un’altra dimensione. La sua funzione è segno, linguaggio.
Mai come oggi, al tempo della pandemia, il corpo fisico diventa l’elemento essenziale per definire i comportamenti e l’etica della polis, limitato o libero nei movimenti, definito come soggetto sociale e culturale, singolo e/o collettivo. Poi, un corpo economico, utile alla produzione oppure temporaneamente sospeso, o allontanato da essa.
Chi era già ai margini, o privo di struttura a sostegno, attende che, passato il temporale, qualcuno si occupi di lui.
Il teatro strutturato o lo Stato. Chi già faticava a vivere spera di sopravvivere. L’economia male sopporta i tempi lunghi dell’introspezione, dell’approfondimento, dell’ignoto.
Però, nel tempo del vivere a domicilio, anche il teatro strutturato, pianificato a lungo termine, dotato di grandi risorse, teme l’incerto, e tutto l’indotto nei suoi diversi settori lo teme di riporto. Bene per le cinque proposte di Oberdan Forlenza, presidente della Fondazione Teatro Due di Parma (immediata erogazione di tutto il FUS stanziato per il 2020 con totale moratoria dei parametri vigenti, creazione di un fondo per l’erogazione a fondo perduto di somme per la ristrutturazione dei luoghi di spettacolo in relazione alle nuove misure di sicurezza da attuare, deduzione fiscale del costo del biglietto, istituzione di un fondo di solidarietà per il precariato dello spettacolo, misure specifiche di sostegno per l’esercizio cinematografico) e quanto aggiunto dall’assessore regionale alla cultura Mauro Felicori (assicurare la sopravvivenza anche ai tanti organismi non sostenuti dal FUS destinando loro, soprattutto a quelli più strutturati, una quota del “fondo emergenze spettacolo”, riavviare quanto prima il processo di riforma e ottenere entro il 2021 il Codice dello Spettacolo).
C’è bisogno di proposte e non deve prevalere la paura del vuoto economico, della sensazione di una povertà imminente più insopportabile di quella che il teatro non strutturato già conosce. Già affiora l’intento di ampliare il concetto stesso di strutture teatrali, certo il riferimento al maggior intervento sulla cultura e lo spettacolo dal vivo in altri Paesi in percentuale di PIL, come la Francia e la Germania ad esempio, dovrebbe seguire di pari passo questa felice intenzione. Così come superare la rigidità algoritmica o di rendita di posizione che caratterizza l’attuale intervento del MiBACT, ripensando ai criteri di qualità fin qui applicati.
Il tempo della pandemia è il tempo della paura, al di là della speranza tutta umana di uscirne al più presto, ma per il teatro? Per il linguaggio del teatro? Per il teatro del corpo fisico, il teatro dell’umano, sia che si rappresenti on stage sia che partecipi, guardando e vedendo?
Scrivevamo tempo fa: “Forse l’esperienza primaria della paura dovrebbe ritornare all’uomo, all’attore parafulmine, all’eroe mancante nell’epoca dei superuomini virtuali. L’uomo dovrebbe ritornare ad essere uguale a zero e, come scrive Hölderlin, nell’infinita debolezza trovare la sua massima potenza. Se è nella decomposizione/trasformazione/trasfigurazione che l’opera d’arte percorre un vero cammino di luce e conoscenza, chi meglio dell’uomo, e quindi della forma artistica che non può prescindere dalla sua presenza – il teatro ‒, può riaffermare il primato dell’essere sull’apparire? Certo non tutto il teatro ma il teatro del falso movimento. La nostra esperienza artistica ci ha disegnato una mappa che è fatta di tanti percorsi scuri e oscuri ma dove abbiamo incontrato la vera bellezza lì c’era l’impronta di un passo incerto, claudicante, insicuro. Un balbettío. Fosse una ‘Veduta’ scritta nella notte scura di Hölderlin o un ‘carne, dura marcia carne’ – di una luminosa attrice sensibile”.
Questo presente senza un domani, e per il teatro il domani è l’anno che verrà (se non tre anni dopo), impone di ripensare alle modalità del teatro, inteso come rappresentazione negli edifici teatri o in luoghi aperti, in ogni modo usati come teatri; impone pratiche di teatro nuove per l’uomo-attore così come per l’uomo-spettatore.
Il corpo fisico è elemento fondamentale, ma altrettanto debole.
Nel tempo della pandemia ogni piccolo passo deve garantire sicurezza, difesa totale da aggressioni, garanzia di negatività al virus. La relazione tra regista e attore deve di necessità cambiare, può prevedere un periodo di prova a distanza, di studio e analisi, ma poi ci sarà sempre un luogo fisico dove l’umano si darà in pasto ad altri umani, l’immagine non potrà più ritardare l’evento, anche se adesso si mostra bellissima. E lì sarà il corpo fisico, e allora occorrerà difenderlo da ogni pericolo. Si sta ancora sperimentando l’efficacia del test più completo, quello sierologico. Quando la percentuale di sicurezza avrà raggiunto l’apice, ed effettuati i test, solo allora si potrà procedere a risalire in palcoscenico, e solo per le prove. Fra pochi attori e registi, per i quali varrà la formula: il rischio fa parte della vita.
E così anche la nostra ricerca che oggi ha molti strumenti in più per indagare nel profondo dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo dell’essere umano, e in particolare in quegli stati di rappresentazione che permettono una relazione empatica, diretta all’altro che vede, ascolta, partecipa.
Ed è sempre il corpo il primo ad andare, a presentarsi, “la parola che si rivolge a qualcuno è una parola corporea”, scrive Nancy, “È meno significato che voce, e con la voce ‒ o nel silenzio ‒ il gesto, la postura, l’andatura del corpo. I corpi parlanti hanno qui una parola corporea”. È così che si presentano per quello che sono: presenze di cui lo spaziamento apre le tensioni ‒ i conflitti, come dice Artaud ‒ e il gioco istruisce il dramma.
E così forse per gli spettatori distanziati, con mascherina e guanti. Le prenotazioni con l’aggiunta di certificato medico e di test terminati. La cosiddetta normalità, la socialità, la comunità verranno, ma solo con il vaccino. Più avanti, la scienza accelera ma ha bisogno di certezze. Intanto ben vengano le proposte, bene le riflessioni a ripensare un’arte che si dovrà armare di fluidità, differenza, più leggera nelle dimensioni per meglio mutare, meglio avvicinarsi ad altri umani, più duttile alla malattia, alla resistenza, al nuovo mondo.

Francesco Pititto

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