“Anemone”. Rancore e redenzione dell’Irlanda nell’esordio del regista Ronan Day-Lewis

Miglior opera prima ad 'Alice nella Città' per il film d’esordio di Ronan Day-Lewis. Un film che si muove tra solitudine e tormento, tra cinema e pittura. Nel video la nostra intervista al regista

Anemone, il debutto al lungometraggio del regista statunitense Ronan Day-Lewis, apre come un’epifania visiva e narrativa: un racconto di fratelli, padri e figli, di rifugio e ritorno, di rancore e redenzione. Il film, presentato in Italia ad Alice nella Città e al cinema dal 6 novembre con Universal Pictures, vede il ritorno in scena di Daniel Day-Lewis (che ne ha firmato anche la sceneggiatura insieme al figlio), dopo otto anni di silenzio, e nei panni di Ray Stoker. A suo fianco Sean Bean interpreta Jem Stoker, fratello distante e in crisi, costretto a ritrovare Ray nella solitudine di una capanna nascosta nei boschi dell’Inghilterra settentrionale. In una baracca primitiva, abbandonata al vento e alla pioggia, Ray e Jem si confrontano con una storia segreta di violenza, devozione e tempo perduto.

Radici e geografie interiori in Anemone di Ronan Day-Lewis

Ronan Day-Lewis, che ha vissuto in Irlanda tra i sette e i tredici anni, racconta di come le radici dell’Irlanda, del conflitto dei “Troubles”, e il legame di suo padre con l’Inghilterra abbiano costretto la storia verso una geografia che somiglia più a un “non-luogo” del sud-ovest britannico che a un’ambientazione realista. Nel film Ray vive in auto-esilio, in un limbo sospeso, mentre Jem ha cercato rifugio nella fede, in una compagna (Samantha Morton) e in un figlio, Brian (Samuel Bottomley). Ma quando la crisi familiare lo costringe a rivolgersi al fratello, si apre un viaggio nel passato che farà emergere rancori tenuti a bada per decenni.

Ronan Day-Lewis: da pittore a cineasta

Se già la storia richiama un classicismo tragico, è il modo in cui Day-Lewis la osserva che la eleva: da pittore a cineasta, il regista imprime a ogni inquadratura una sensibilità scelta. I paesaggi gallesi (qui sostitutivi dello Yorkshire nativo della famiglia Stoker) diventano protagonisti: vaste spiagge cariche di emozione, cieli in tempesta che si gonfiano come le tele romantiche di J. M. W. Turner. Ronan racconta di aver sempre cercato nei paesaggi che hanno segnato la sua infanzia in Irlanda un senso di meraviglia e “malinconia aspra, quasi selvatica”.  La pittura, per lui, non è più un esercizio parallelo al cinema: “Le sensazioni e le immagini che mi attraevano nella pittura hanno cominciato a riversarsi nel mio modo di pensare le inquadrature di un film”, spiega. Ed è visibile: la tavolozza del film è altamente caratterizzata — blu profondi, verdi che contengono al tempo stesso freddezza e brillantezza, crepuscoli che sembrano dipinti. La macchina da presa di Ronan non è semplicemente testimone ma presenza attiva: è “iper-soggettiva”, cattura il vento, il peso del paesaggio, la psiche di Ray, il turbine emotivo dei due fratelli.

La fotografia come linguaggio dell’anima in “Anemone”

In dialogo con il direttore della fotografia Ben Fordesman (vincitore di premi British Independent Film Award), questa sensibilità pittorica trova traduzione visiva concreta: la blue hour diventa tempo narrativo, la capanna un microcosmo di oppressione, il formato panoramico 2.39:1 amplifica la vastità esterna e la clausura interna. Le luci della notte, illuminate solo da lampade a petrolio, richiedono una precisione quasi artigianale. Fordesman racconta: “L’uso soggettivo della macchina, le transizioni fra personaggi lontani, isolati nei loro mondi, ma consapevoli l’uno dell’altro, contribuiscono a creare un linguaggio visivo connesso all’immensità degli spazi esterni”. E Ronan: “Ho disegnato fino al dettaglio alcune delle sequenze più visivamente intense”. Qui la pittura diventa cinema, e il cinema un’estensione della tela.

“Anemone” e l’arte di raccontare il silenzio

In questo film — opera d’esordio ma già matura — Ronan Day-Lewis mette in campo tutto ciò che un cineasta-pittore può offrire: l’occhio dell’artista che misura i vuoti, studia i silenzi, cattura il vento nei capelli dei personaggi e nelle fronde degli alberi, esplora il potere spirituale della natura che osserva e sovrasta il dramma umano. I due fratelli, Ray e Jem, sono semplici di questa forza — soffocati nella capanna, schiacciati in un morsa immaginaria, ma anche trascinati verso la resa dei conti in un paesaggio che non perdona.  Il risultato è un film che non dimentica gli archetipi della famiglia e della colpa, e al contempo li porta su un piano visivo dove la pittura diventa inquadratura, la natura diventa personaggio, e il cinema diventa, finalmente, un’esperienza dello sguardo.

Margherita Bordino

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Margherita Bordino

Margherita Bordino

Classe 1989. Calabrese trapiantata a Roma, prima per il giornalismo d’inchiesta e poi per la settima arte. Vive per scrivere e scrive per vivere, se possibile di cinema o politica. Con la valigia in mano tutto l’anno, quasi sempre in…

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