Alla Biennale del Cinema di Venezia 2025 arriva la serie tratta dal film “Un prophète”

Tratta dall’omonimo film di Jacques Audiard, la serie presentata Fuori Concorso nasconde citazioni letterarie e cinematografiche degli stessi sceneggiatori del film nominato all’Oscar, ed è diretta da uno dei talenti italiani più ricercati: Enrico Maria Artale

Una realistica prigione francese, una Marsiglia cruda e violenta, un coming of age brutale. Questa è la storia di Malik, un ragazzo di origini africane che si piega al male, rappresentato da Massoud, losco uomo d’affari che accetta il carcere per poter mettere “le mani sulla città”. Malik resta invischiato nel trasporto di droga e viene arrestato proprio a causa del crollo di uno dei palazzi di Massoud: la trama si infittisce, inerpicandosi tra conflitti razziali e religiosi, ingiustizia sociale, machismo e omofobia.

A Venezia la serie tratta dal film “Un prophète”

La serie Un prophète è un racconto epico, ma anche la rivalsa di un ragazzino emarginato sui poteri forti della criminalità organizzata, una ascesa del male sul male che cita la crisi dinastica di I re maledetti di Maurice Druon. E la serie è piena di citazioni letterarie, anche perché Malik, che a stento sa leggere e scrivere, viene salvato da Rony, un “pentito” cattivo, che ritrova Dio e redenzione in prigione e ora gestisce la biblioteca del carcere. Rony salva Malik, e da salvatore diventa anche il suo carnefice, trasformandolo in assassino, ma anche in un lettore attento. E allora spazio agli immutabili insegnamenti de Il lupo e la volpe davanti al tribunale della scimmia, da Le favole di Jean de La Fontaine, o ai consigli di Papà Goriot di Honoré de Balzac che riverberano ambizione sociale, centralità del denaro, amore e ossessione filiale. Però, è meglio non leggere Lo straniero di Albert Camus perché, come gli dice Rony stesso, “un piccolo libro può essere un grande libro” ed è davvero troppo difficile per lui, forse perché riflette proprio su etica, moralità, giustizia, senso dell’assurdo.

“Un prophète”, più che una serie, un film di sette ore e 8 puntate 

Questo è il preambolo di una serie intensa, un lungo film (di sette ore e 8 puntate) diretto da Enrico Maria Artale, un regista che rende il cinema del reale poetico e il cinema classico avanguardia, con una incredibile attenzione all’emotività degli attori, a cui lascia incontrare i propri personaggi con l’anima. Non solo, Artale è un incredibile sceneggiatore che riscrive durante la produzione e gira, in una personale anomalia produttiva, in ordine cronologico, come fece con il suo capolavoro El Paraiso, usando lui stesso la macchina da presa, forse per stare più vicino agli interpreti. 

Il cast è davvero eccellente, dal pluripremiato Sami Bouajila/Massoud (Miglior attore al Festival di Cannes per Days of Glory e Premio Cesar per I testimoni) all’eclettico Moussa Maaskri/Rony, fino all’esordiente Mamadou Sidibe/Malik. Ed è anche la loro interpretazione che rende tutto vero, credibile, avvolgente, insieme alla regia, svuotata da ogni cliché di genere, laddove i dialoghi non sono mai eccessivi, bensì pertinenti, lasciando così spazio, come nel film da cui è tratta la serie, a sparuti momenti onirici. Un espediente visivo per farci entrare nella mente dei protagonisti, chiusi dentro una prigione e dentro loro stessi, anche se qui la realtà prevale sempre, raccontata in modo classico attraverso la crudezza claustrofobica della prigione e la libertà apparente di una città intrappolata nella corruzione. Perché sono tutti colpevoli e discriminati, per questo l’innocenza viene subito assassinata, l’amore non sembra esistere, oppure si tramuta in ossessione, mistificazione, negazione e il rispetto prende il sopravvento fin dove conviene e fin dove la violenza e la morale criminale lo permettono. 

Dal film di Jacques Audiard alla serie di Enrico Maria Artale

Creare una serie da un film osannato da critica e pubblico non deve essere stato per niente facile, forse per questo alcune storie vengono cambiate, adattate all’oggi, che non sembra essere molto differente dal 2009. Però, con un maggior tempo filmico, ci si può permettere di dare spessore ai personaggi, renderli più tridimensionali, più cattivi e buoni, morali e immorali. Si può entrare nella loro backstory, penetrare nelle loro menti, dare vita a paure, ricordi, emozioni. Si può rimanere silenti o urlare con immagini da cinema d’autore. Perché questo è cinema seriale d’autore e il merito è sì del regista e degli sceneggiatori, ma lo è anche dei produttori – Marco Cherqui, Nicola Giuliano, Fabio Coversi -, che, in un’epoca in cui sono i profitti ad avere la meglio sui sogni, non è affermazione scontata. Anche se, dobbiamo sempre ricordarlo, la materia con cui è fatto il cinema sono proprio i sogni, che non bruciano veloci come i soldi, ma bruciano lenti nell’anima, la tengono accesa, la muovono. E persino il cattivo maestro della serie, Massoud, sembra essere mosso proprio da un sogno: “È questo che vuoi costruire?… Ci tieni troppo a questo progetto… perché sia un semplice progetto. È piuttosto un sogno! E sappiamo entrambi qual è la differenza…”. Ma siamo sicuri di saperla?

Barbara Frigerio

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Barbara Frigerio

Barbara Frigerio

Connettere tutte le forme d’arte è la sua ossessione. È un’autrice, story editor, script doctor, executive producer, critica e giornalista. Ha collaborato con il Mereghetti Dizionario dei Film e con numerose riviste tra cui Rolling Stone, Vogue, GQ, occupandosi di…

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