Eredità, tradizione e contemporaneo. La danza Butoh a Genova

Un convegno, tre spettacoli e una mostra fotografica hanno portato a Genova una riflessione sulla danza Butoh in chiave contemporanea.

Una disciplina totalizzante, un abbraccio vitale. Nessun manifesto, se non il coraggio di guardare negli occhi il mistero e rappresentarlo. Manifesto è il proprio corpo denudato allo sguardo altrui. È la vita che osa vivere la morte. L’oscurità dell’animo e della natura esplorata ora con la potenza del grottesco e ora con la delicatezza di un fiore, senza la narrazione della ragione.
Al Butoh è dedicata la nona edizione di Testimonianze ricerca azioni, festival genovese ideato da Teatro Akropolis con la direzione artistica di Clemente Tafuri e David Beronio.
Indagare la radicalità del confine tra nero e luce, limite della resistenza fisica e grazia della carne. Senza decoro, senza superfluo. Ma, come ogni ricerca, anche il Butoh chiede che si tracci il rapporto tra presente e tradizione, tra forma del contemporaneo e contenuto sedimentato nella disciplina della didattica e della pedagogia. Qual è il rapporto tra la memoria dell’archivio e la dinamicità che la parola sapienziale chiede alla sua trasfigurazione d’attualità? Qual è il rapporto tra corpo e immagine, parola e traduzione coreografica?

BUTOH E PRESENTE

Un convegno, tre spettacoli e una mostra fotografica. Questa la terna per declinare la mediazione di una poetica entro le forme che può assumere allo specchio del presente. Materiali da “manipolare” conoscendone l’involucro, direbbe Nicolas Bourriaud. È così che forse si costruisce la postmodernità, anche con il Butoh. L’occasione era di quelle imperdibili. Al Palazzo Ducale c’era Imre Thorman (allievo diretto di Kazuo Ohno, uno dei padri fondatori del Butoh) con Enduring Freedom e poi Masaki Iwana, uno dei danzatori Butoh più famosi al mondo, e Alessandra Cristiani, performer e danzatrice che ha creato e diretto, dal 2001 al 2011, la rassegna internazionale di danza Butoh Trasform’azioni. A dire che il corpo del danzatore nella fotografia è sguardo che dispone alla postura e crea spazi inediti c’era pure la mostra fotografica con le immagini di Alberto Canu, Emilio D’Itri e Samantha Marenzi, quest’ultima anche curatrice e relatrice tra le più inquiete del convegno. Accanto a lei i più assodati contributi di Matteo Casari ed Elena Cervellati.

Testimonianze ricerca azioni IX e la Danza Butoh. Samantha Marenzi. Photo Francesca Marra. Courtesy Testimonianze ricerca azioni

Testimonianze ricerca azioni IX e la Danza Butoh. Samantha Marenzi. Photo Francesca Marra. Courtesy Testimonianze ricerca azioni

FOTOGRAFIA E CORPO

Come si trasmette la memoria di una sovversione?”, si è chiesta Samanta Marenzi. “Per evitare le ripetizioni che producono svuotamento, gli artisti hanno sposato i principi mantenendo un risultato visibile aldilà della metamorfosi delle forme”. La fotografia può essere il partner del butoka: “Noi danziamo, poi quando siamo pronti per la fotografia diventiamo reali”, scriveva Kazuo Ohno. La fotografia è accesso a nuovi spazi, innesco della tridimensionalità, quindi dell’oggettività. Performativo eretico che taglia in due oriente e occidente. Per questo Clorofilla di Alessandra Cristiani non dovrebbe scendere a patti con la comodità. Poco c’entrano i pantaloni indossati prima di quel finale così manierista, con il corpo che raccoglie decadenti piume di Leda su un altare canoviano. Il suo corpo raggomitolato in una forma di bambina pulsa una primordiale palpitazione muscolare per poi liberarsi in una fuorviante danza centrifuga. Elena Cervellati ci aveva detto che “Il Butoh è amore, tenebre e carne”.  Lì dove non immediata è la connessione tra il fare e la parola, la danza annulla in un abisso di sé la parola stessa.

Masaki Iwana. Photo Hiroyasu Daido. Courtesy Testimonianze ricerca azioni

Masaki Iwana. Photo Hiroyasu Daido. Courtesy Testimonianze ricerca azioni

IWANA E THORMANN

Una perdita per tappe, per scansioni di micro movimenti nella danza di Masaki Iwana che, in Vie de Ladyboy Ivan Ilitch, indugia fin troppo sulle maschere, anche gutturali, che il dolore assume quando è eccessivamente declinato, sminuzzato in quelle parti che perdono decisamente il tutto. Paradossalmente più sincera l’operazione di Imre Thormann: Enduring Freedom è anima che segue il cuore lungo una ortodossia che si rigenera in un immaginario da nord Europa. Il suo corpo flesso ci rimanda a certi cristi di Grünewald o poveri cristi di Mušic: carne che picchia sul pavimento del Palazzo Ducale come affetta dalla follia di Artaud o del Principe Costante. “Create l’immagine mentale”, diceva il maestro Butoh, “un movimento nella sua estensione effettiva e trattenetelo in parte nella mente, sarà il pubblico a completare e a riempire il vuoto poetico”.

Simone Azzoni

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Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

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