Nel 2026 saranno i 50 anni di “Allegro ma non troppo”, film capolavoro di Bruno Bozzetto
Vero cult dell'animazione, l'intero film gioca con arguzia ed eleganza sul filo del plagio di Fantasia. Ma lo supera in intelligenza, e per molti versi si è rivelato profetico. Vi spieghiamo il perché
“Signore e signori, state per assistere ad uno spettacolo indimenticabile, ad un film destinato all’immortalità. Immortale come le musiche che verranno ora eseguite ed interpretate a disegni animati. Illustrare la musica, dare corpo e colore alle note è un’aspirazione che ogni disegnatore cova nel fondo della propria anima fin dalla più tenera età. Con questo film siamo finalmente riusciti a realizzare questa unione. Disegni animati e musica classica: una coppia destinata a rimanere -ne siamo certi – nella storia del cinema. Un film nuovo, originale, che ha stupito per primi noi, noi che modestamente l’abbiamo ideato. Un film dove potrete vedere la musica e ascoltare i disegni. In una parola, un film pieno di…fantasia!”. Con queste parole si apre il film d’animazione Allegro ma non troppo creato dalla geniale fantasia di Bruno Bozzetto nel 1976, e già la prima scena è una dichiarazione d’intenti. Non fa a tempo a finire di pronunciare la parola “fantasia!” che infatti il presentatore, impersonato da un esuberante Maurizio Micheli, viene interrotto da una telefonata in arrivo da Burbank, California. L’intero film gioca con arguzia ed eleganza sul filo di un plagio che è più dichiarato che presente in un film che davvero poco ha a che fare con la rapsodia d’animazione della Disney del 1940. Il film di Bozzetto è molto più intelligente e compiuto nell’analisi sociologica della società a cui tale prodotto è destinato. I livelli a cui risulta espressivo sono numerosissimi e non è infrequente riuscire a cogliere una nuova citazione, un riferimento, un occhiolino che nelle visioni precedenti era passato inosservato.
Il film capolavoro di Bruno Bozzetto
Ma procediamo con ordine per valutare le peculiarità davvero uniche di questo film che ha fatto la storia dell’animazione italiana: il primo elemento su cui soffermare l’attenzione è il ruolo dell’animazione e della recitazione con attori in carne ed ossa. Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, agli attori e attrici – con il direttore d’orchestra iberico, un pettinatissimo Maurizio Micheli e un’intera orchestra di agghindatissime ed adorabili nonnine delle valli bergamasche – è riservato il ruolo della commedia, della parte più prettamente umoristica. Talvolta diventa una sorta di intermezzo comico. L’animazione invece è tremendamente seria, riflessiva, nobile e alta, accompagnata dalle melodie classiche. In un certo senso, Bozzetto vuole qui rivendicare il ruolo di artista per il disegnatore, che negli anni Settanta non era ancora così accettato come lo è oggi.
L’opera d’arte totale secondo Bruno Bozzetto
Il film nel complesso è però una sorta di “Gesamtkunstwerk”, come si diceva a inizio XX Secolo, cioè un’“opera d’arte totale”, in cui entrano tutti i linguaggi della creatività umana, dalla danza alla pittura, dalla scrittura alla musica, dal cinema al teatro fino ad arrivare a quella che evidentemente – secondo Bozzetto – è il culmine e la sintesi di tutte le altre arti: l’animazione. Questo tipo di riflessioni su quale forma artistica sia la più elevata ha radici molto antiche, risale al genere letterario del “Paragone delle Arti” già introdotto da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia e poi ripreso nel Rinascimento ad esempio da Leonardo da Vinci, Vasari o il Cellini. Di questo “scontro tra le arti” – per così dire – è resa testimonianza plastica nello scontro, dapprima accennato, in seguito sempre più evidente tra il direttore d’orchestra (musica) e Nichetti (animazione). Si tratta forse di una battaglia generazionale, in cui l’arte tradizionalmente considerata alta ed erudita per eccellenza (la musica d’orchestra) passa il testimone al nuovo, al disegno e alla fantasia dell’animazione. Il luogo di tale scontro-incontro, di questa unione e sintesi dei linguaggi, di questa interazione dinamica e non lineare tra le varie forme d’espressione artistica, non può essere che un tempio come il Teatro Donizetti di Bergamo.
Società e fascismo in “Allegro ma non troppo”
La prima scena animata, in cui un anziano fauno fa i conti con il passare del tempo e con la difficoltà dell’apparire attraente agli occhi degli altri, è apparentemente la più frivola. Ma il messaggio è anche in questo caso potente: il fauno, che in giovine età insidiava impunito le fanciulle, in età attempata è deriso e scacciato. La società è cambiata, e non è più l’epoca di comportarsi in quel modo improprio. Accettare il passare del tempo, il cambio dei modelli comportamentali e l’evoluzione del concetto di “corretto” e “scorretto” non è facile, ma non bisogna avere paura del cambio. Opportunamente, il brano d’animazione è stato ispirato dal Preludio al pomeriggio di un fauno di Claude Debussy. Una riflessione quanto mai attuale sul fascismo e sulle sue radici profonde, ossia il conformismo e la passività di fronte alle assurdità di chi vanta ruoli di potere è il tema dominante di quello che forse è il brano di animazione più “politico” e sociale dell’intera pellicola. La tracotanza dell’individuo al potere risulta senza limiti, tanto da iniziare una vera e propria corsa alle armi così da sfruttare la sua influenza per trasformare i suoi seguaci in soldati. Ma una volta che li sfida ad imitarlo a gettarsi dalla voragine, la reazione del popolo risvegliatosi è da manuale: i soldatini si sfilano i pantaloni e mostrano al fascista le dovute terga. L’animazione è stata ispirata dalla Danza slava n.7 di Anton Dvorak.
Le scene più impressionanti di “Allegro ma non troppo”
Il Bolero di Maurice Ravel accompagna quella che secondo molti è la scena d’animazione più riuscita e memorabile dell’intero film: la sequenza è onirica e sembra che molte suggestioni siano un omaggio al surrealismo di Salvador Dalí. Si parte dalla forma di una bottiglia di Coca-Cola in vetro illuminata dalle stroboscopiche luci di un modulo di esplorazione lunare: gli astronauti terrestri sembrano avere lasciato la bottiglia sul pianeta sconosciuto, come turisti incivili sul ciglio delle piazzole dell’autostrada. Dalla bottiglia emerge, quasi fosse un prodromo del simbionte Venom del film del 2007 di Sam Raimi, una densa goccia bituminosa: si tratta di una sorta di brodo primordiale, che ingenera una catena evolutiva incredibile sul pianeta sulla falsariga di quanto è accaduto sulla Terra, con tanto di artropodi, dinosauri ed aggressivi scimmioni di forma inequivocabilmente umanoide, tanto nell’aspetto quanto nel cipiglio belligerante. Una scena colpisce l’immaginazione: quella dei vulcani in eruzione, in cui la creatura bituminosa pare portata via da quelli che sembrano essere diavoli simili a quelli rappresentati da Martin Schongauer nella sua incisione Tribolazioni di Sant’Antonio del 1470. Altrove le forme organiche ed esuberanti paiono essere un omaggio al Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch. L’interrogativo che emerge da questa sequenza è quanto sia conseguenza inevitabile dell’evoluzione l’emergenza di una specie aggressiva dominante che metta in pericolo l’intero ecosistema. Si tratta di una riflessione filosofica sulla quale ancora oggi Bruno Bozzetto si arrovella, forse senza aver trovato ancora una risposta soddisfacente.
Il momento più drammatico del film è il gatto che rimembra il suo paradiso prebellico ormai perduto sulle note del Valse triste di Jean Sibelius. Dimenandosi sulle rovine di una casa bombardata e pericolante, il felino ricorda nostalgicamente i dolci momenti vissuti insieme alla sua famiglia, vittima di bombardamenti: le immagini che si vedono sono quelle di Bozzetto e della sua famiglia. Impossibile non vedere queste immagini oggi e pensare alle immagini provenienti dalla Striscia di Gaza o dall’Ucraina. La casa – una casa di ringhiera tipicamente milanese, come le tante migliaia di edifici persi durante i bombardamenti alleati – verrà rasa al suolo, segno inequivocabile di una città senza memoria. E chi è senza memoria, è condannato a riviverla, la Storia.
Il ruolo degli umani nella storia della Terra secondo Bozzetto
Ma il film è intitolato “Allegro non troppo”, dunque si torna alla giovialità con il delizioso brano Concerto in do maggiore di Antonio Vivaldi. Un’apina prepara con solerzia un organizzatissimo pic nic, con tanto di televisione portatile, quando ecco che una specie invasiva – gli umani – occupano impunemente la sua parcella di verde. Giganteschi e voluminosi, con un’impronta ecologica mostruosa, gli Homo Sapiens Sapiens non si curano del benessere della simpatica apina, a cui va tutta la nostra solidarietà di spettatori. Anche qui Bozzetto è stato profetico, data la questione tutt’ora irrisolta della minaccia agli insetti impollinatori che l’inquinamento luminoso, elettromagnetico, atmosferico e ambientale prodotto da noi umani comporta. Siamo pronti a vivere in un mondo senza fiori? Nonostante quello che il presentatore, uscito da una lotta assai violenta con il direttore d’orchestra dice in maniera frettolosa, il brano Uccello di fuoco non è di Igor “Dostoevsky” ma Stravinsky. Anche con quest’ultima animazione Bozzetto si cimenta in un Gedankenexperiment, come li definiva Albert Einstein, un esperimento mentale: cosa potrebbe essere accaduto se fosse stato il serpente, e non Adamo ed Eva, a mangiare la Mela dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male nel giardino dell’Eden di biblica memoria? E qui si vede il serpente dimenarsi in una varietà sconfinata di incubi, di infernali visioni e di preconizioni agghiaccianti: si va dalla pubblicità ossessiva al consumismo più sfrenato, dal mercato azionario al traffico, dai soldi alla droga. Nessun girone infernale è risparmiato al povero serpente, che intimorito torna mestamente da Adamo ed Eva e sputa la mela, che viene così lasciata alla mercé del loro libero arbitrio. Prevarrà la curiosità morbosa o il prudente scetticismo? Il finale del film è un trionfo di lirismo romantico, in cui l’omaggio ai classici disneiani come Biancaneve e i Sette Nani o La bella addormentata nel Bosco e il suo Principe Azzurro si fa quanto mai plateale, senza però mai risultare fuori luogo.
L’accoglienza di “Allegro ma non troppo”
L’uscita del film fu problematica nella bigotta e provinciale Italia di metà Anni Settanta, in cui si interpretavano i cartoni animati come un prodotto esclusivamente infantile. Fu difficile trovare un distributore, e così il film venne proiettato negli Stati Uniti e nel resto d’Europa (Germania, Francia, Svezia e Regno Unito). In Italia arrivò solo l’anno dopo, nel dicembre del 1977, ma in seguito venne compreso e apprezzato appieno, tanto da ricevere nel 1978 un premio speciale ai David di Donatello. A distanza di cinquant’anni da questo capolavoro del cinema (d’animazione e non solo) possiamo permetterci un bilancio ponderato: Allegro non troppo non solo non sembra soffrire in alcun modo del passaggio del tempo, ma in alcuni frangenti le situazioni narrate – pur in apparenza paradossali – sono risultate tristemente profetiche. È uno di quei film che restano impressi nella memoria e torna a farci riflettere ogni volta che lo rivediamo, così ricco di spunti che torna a riconnettersi con parti di noi che sono emerse nel periodo di latenza tra una visione e l’altra, giacché a essere cambiati siamo noi. Forse nessun film è riuscito a realizzare così tanto in termini di potenza di immagine e di profonde suggestioni filosofiche con un budget così ridotto quanto questa pellicola del 1976. Che capolavoro, signor Bozzetto!
Thomas Villa
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