The Glorious Mothers: quando la maternità diventa atto artistico e politico 

L’artista e teorico Antonino La Vela racconta, a partire dalle parole delle protagoniste, il collettivo nato in Italia durante il Covid per vincere la sfida di essere artiste e madri, tra pratica creativa, attivismo e residenze

Il nome sembra trionfale, quasi solenne. In realtà un gesto ironico, persino paradossale. The Glorious Mothers è un collettivo di artiste madri nato in Italia durante il periodo del Covid: donne sparse in città diverse, alcune con partner e altre sole, accomunate dal bisogno di non restare isolate. 

Per chi diventa madre, l’arte rischia di trasformarsi in un labirinto di silenzi. Una condizione che moltə fingono di non vedere. “Gloriose” diventa allora una parola scelta per ribaltare il senso comune: se il sistema dell’arte non riconosce la maternità, loro decidono di celebrarla, di rivendicarla come gloria, di farne atto politico e creativo. Quando ho incontrato le loro voci, in particolare di Sara Basta, Cristina Cusani, Mariana Ferratto, Francesca Grossi, Giulia Iacolutti, Vera Maglioni, Caterina Pecchioli, Lorena Peris, Dafne Salis, Miriam Secco, ho capito che quell’aggettivo non era un vezzo. Era la forma più radicale di resistenza: un modo per affermare che la maternità, troppo spesso relegata all’invisibilità, è invece portatrice di forza, dignità e creazione e così ho deciso di raccontarle… 

The Glorious Mothers
The Glorious Mothers

Le difficoltà invisibili delle artiste madri nelle parole di Lorena Peris di The Glorious Mother 

Lorena Peris (Fiesole, 1981): “Da ragazza e giovane artista collaboravo con un gallerista, mi disse, preoccupato, che, se desideravo avanzare nella mia carriera artistica assolutamente non avrei dovuto avere figl3, perché altrimenti la mia creatività si sarebbe esaurita nella prole. Lavoro affinché frasi del genere non trovino più ascolto, perché è questa mentalità il problema: in questo modo diamo ragione a chi ci vuole creative ma solo dove non diamo fastidio, nel ruolo di mamme all’italiana, e invece siamo artiste e poi, se ci va, anche madri”.  
Chi non conosce da vicino il lavoro artistico immagina ancora una dimensione libera, senza vincoli. In realtà l’arte è fatta di orari imprevedibili, viaggi, inaugurazioni, residenze che richiedono settimane lontane da casa. E in questo schema i figli non trovano posto. 

Le Glorious Mothers hanno deciso di dar voce a ciò che di solito resta nascosto. Per un’artista madre non esistono congedi né tutele economiche. Ogni pausa obbligata diventa un rischio: si perdono mostre, opportunità, relazioni. Lentamente ci si ritrova ai margini, tagliate fuori da un sistema che premia la presenza costante. Il collettivo reagisce costruendo piccole reti di mutuo aiuto. Si sostengono nella gestione quotidiana, si ascoltano, si consigliano. Ma sanno bene che non basta. Perché il problema non è individuale, è culturale e strutturale. 

Anch’io, ascoltandole, mi sono accorto di quanto raramente questa questione venga affrontata con serietà nei dibattiti sull’arte contemporanea. È come se un intero pezzo di realtà fosse volutamente espulso dalla narrazione ufficiale. 

Francesca Grossi, tra le fondatrici del collettivo racconta come trasformare il limite in creazione 

Francesca Grossi (Roma, 1982): “Bisogna assolutamente che il lavoro artistico venga riconosciuto”.  
La parte sorprendente è che queste difficoltà non restano soltanto ferite da sopportare: diventano linguaggio. Alcune artiste coinvolgono i figli nelle opere, trasformando il gioco in processo creativo. Altre fanno della maternità stessa una ricerca, lasciando che la relazione madre–figliə si traduca in immagine, gesto, voce. 

Un disegno a quattro mani, una performance che accoglie la presenza di un bambino, un’opera che nasce dall’intimità di una relazione quotidiana: tutto questo diventa arte. Il confine tra vita e pratica si dissolve. 

I figlə non sono semplici presenze da gestire. Sono soggetti creativi, compagni di ricerca, piccoli co-autori. Sono ispirazione e materia viva. Così la maternità si rivela non come limite, ma come terreno fertile di nuove possibilità. 

La rete e le residenze: parola a Mariana Ferratto 

Mariana Ferratto (Roma, 1979): “Bisognerebbe uscire dall’idea della famiglia mononucleare verso una condivisione in cui la cura delle bambine e dei bambini sia qualcosa che riguarda tutte e tutti.” 
Le Glorious Mothers non agiscono in solitudine. Sono collegate a collettivi simili in Europa, con cui condividono difficoltà e soluzioni Dal 2022 il collettivo organizza annualmente una residenza per artiste con figli/e come momento di incontro e di ricerca, la prima sul territorio italiano.  

Dal 2024 hanno portato il format di residenza per artiste madri con figl3 all’attenzione di un contesto riconosciuto dell’arte italiana, quello della Fondazione Pistoletto / Cittadellarte che si è rivelato un alleato importante, con cui si sta avviando una progettualità condivisa e dove si sono svolte le ultime due residenze. 

In questi spazi i bambini non sono un problema da risolvere, ma presenze accolte. Attività dedicate permettono loro di essere parte del contesto, mentre le madri possono lavorare in studio. Ne nascono laboratori collettivi che intrecciano cura, corpo, desiderio, piacere e che culminano in performance e restituzioni pubbliche. 

Il manifesto che stanno elaborando non è un documento definitivo, ma un processo vivo e costantemente in trasformazione. How to Blow Up a Manifesto? è il titolo di una delle residenze: un invito a far esplodere l’iconografia della madre, a liberarla dagli stereotipi patriarcali, a immaginarla queer, plurale, indisciplinata. 

The Glorious Mothers
The Glorious Mothers

Caterina Pecchioli ci dice cosa vogliono cambiare 

Caterina Pecchioli (Firenze 1978): “Per poterci far riconoscere alcuni diritti specifici legati alle artiste madri e agli/le artist3 genitori, è prima di tutto necessario che venga riconosciuta la figura stessa dell’artist3 visiv3. Mentre ancora in Italia non esiste nemmeno un codice ATECO per questa professione. I nostri diritti dovrebbero essere inquadrati in una riforma più ampia del lavoro culturale e artistico, che oggi in Italia è spesso non riconosciuto, sottopagato e privo di tutele.” 

Il loro obiettivo non si limita alla denuncia. Vogliono proporre alternative concrete. Musei e gallerie dovrebbero prevedere spazi per i bambinə, residenze con strutture inclusive e sostenibili, riconoscimento delle interruzioni curriculari, fondi di sostegno specifico, congedi parentali per artistə, eventi compatibili con la cura. Non è un’utopia: è un cambiamento possibile, se le istituzioni decideranno di superare i vecchi modelli. 

Si tratta soprattutto di una trasformazione culturale. Riconoscere che la maternità non è un ostacolo, ma una dimensione che arricchisce l’arte. Oggi essere madre significa spesso diventare invisibile. Le Glorious Mothers vogliono ribaltare questo paradigma e affermare che la maternità è un valore condiviso, non una condanna silenziosa. 

Cristina Cusani: The Glorious Mother, una speranza per il futuro 

Cristina Cusani (Napoli, 1984): “Pensare alla presenza dei figli e delle figlie all’interno del sistema dell’arte come un qualcosa che vada agevolato o addirittura incoraggiato piuttosto che evitato, permetterebbe alle artiste, nel nostro caso, di sentirsi parte di un sistema e non fuori.” 

Una visione attraversa tutte le loro parole: un futuro in cui le nuove generazioni non debbano più scegliere tra carriera e maternità. Dove i figlə siano parte dei processi creativi e non motivo di esclusione. Dove la cura sia finalmente riconosciuta e valorizzata come risorsa culturale e tema politico. 

Le residenze di Biella sono soltanto l’inizio. Ma sono già la prova che un modello diverso è possibile. L’arte può accogliere. Può aprire strade nuove. Può creare spazi in cui fragilità e forza convivono. 

Perché scrivere di The Glorious Mother, il punto di vista dell’autore: Antonino La Vela 

Ho deciso di raccontare la storia delle Glorious Mothers dopo aver letto il libro di Santa Nastro Mamme nell’arte. Quella lettura mi ha aperto gli occhi su un argomento che avevo ignorato troppo a lungo. Non è solo una questione privata, ma un nodo che attraversa l’intero sistema dell’arte. 

Fino a qualche anno fa, da purista avevo sempre immaginato l’arte come una dimensione assoluta, autonoma, separata dalla vita. Poi ho iniziato a guardare con più attenzione le vite intorno a me: tra le mie amiche artiste più affermate, quasi nessuna con figlə, e anche tra gli artisti indipendenti o meno riconosciuti, questa assenza appariva evidente. Un silenzio collettivo, più eloquente di mille analisi. Ho capito che quel vuoto non è neutro, ma parla di un sistema che ancora non sa accogliere. 

Al tempo stesso ho compreso che la maternità, nella sua complessità e nella sua forza, è già arte di per sé: un gesto creativo radicale, un atto che plasma corpi, tempi, immaginari. 

Scrivere di loro è stato anche un momento di presa di coscienza personale. Perché l’arte non può più permettersi di escludere. Se davvero serve a immaginare futuri, deve includere le madri. Deve dire, una volta per tutte, che anche nella fragilità c’è gloria. 

Le seguirò nel tempo e cercherò, nel mio piccolo, di dare voce alla loro causa. Una causa giusta. E spero che molti altri faranno lo stesso, affinché questa voce non resti più confinata ai margini, ma diventi parte centrale della nostra idea di arte. 

Antonino La Vela 

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