A Torino una mostra trasforma il tempo in materia rotante 

Noire Gallery presenta un percorso espositivo dove il tempo non si misura: si ascolta. Le opere di Alighiero Boetti, Valentin Carron e Jonathan Monk respirano come corpi in attesa, risuonano come strumenti accordati sull’invisibile. E ogni gesto diventa ritmo

C’è un momento, nel silenzio di una sala, in cui il tempo smette di essere cronologia e si fa vibrazione. Turntable nasce da questa soglia, là dove la percezione si incurva e il gesto dell’artista diventa suono. Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994), al centro di questa costellazione visiva, non offre opere da contemplare ma strumenti per ascoltare il fluire dell’energia: il tempo che si avvolge su sé stesso, l’immagine che si reincarna nel proprio riflesso. L’opera omonima del 1969, una pellicola posta su un giradischi in moto perpetuo, è un dispositivo di rivelazione. Non rappresenta, ma accade: è un corpo ottico che genera il proprio battito. Nella rotazione ipnotica del piatto, la materia filmica si fa carne del tempo. Lì, dove il gesto meccanico diventa respiro, Boetti traduce la sequenza in pulsazione, la visione in ritmo. 

Le opere di Alighiero Boetti da Noire Gallery 

Attorno a questa matrice si dispiega una costellazione di segni: dai Manifesti e Dossier postali ai Territori occupati, ogni opera agisce come un frammento di linguaggio che tenta di afferrare l’invisibile. I nomi, i luoghi, le date – privati del loro peso informativo – diventano materia plastica, alfabeto di una poesia concettuale. Boetti sembra rispondere a Duchamp, per il quale “sono gli spettatori che fanno i quadri”: il suo lavoro invita chi guarda a completare il circuito energetico tra visione e pensiero, tra presenza ed eco. 

Valentin Carron e Jonathan Monk nella mostra “Turntable” 

In dialogo con questa eredità, Man Squeezly di Valentin Carron (Martigny, 1977) e Bottle Man (Suavely) di Jonathan Monk (Leicester, 1969) amplificano la riflessione sul doppio, sul corpo e sulla simulazione. Le silhouette vuote, gli oggetti replicati, le bottiglie sospese in equilibrio precario — tutto parla di un linguaggio che si deforma per ritrovarsi altrove, come se l’idea, cadendo nella materia, generasse nuove orbite. Nel lavoro 1111 Monk trasforma la grammatica numerica in poesia visiva, un gioco combinatorio che echeggia l’ossessione boettiana per l’ordine e il caso. Le opere si rincorrono come tracce incise su un vinile: ogni segno produce un suono, ogni immagine un’eco. In questo movimento circolare, lo spazio stesso si fa partitura, campo magnetico di risonanze. Nulla resta fisso: tutto ritorna, mutato, come la nota che vibra ancora dopo che il gesto è cessato. 

Il linguaggio come organismo da Noire Gallery 

Paul Valéry scriveva che “un’opera non è mai finita, ma abbandonata”, e Turntable incarna perfettamente questa sospensione. È un battito che non si chiude, un flusso che si riavvia ogni volta che lo sguardo incontra la materia. In quella rotazione silenziosa, il tempo non passa: accade, continuamente. Boetti, maestro di un linguaggio concettuale che si nutre di ambiguità e di sistemi, eleva la serialità a forma poetica. Nei suoi gesti l’archivio diventa organismo, il codice si trasforma in visione. La scrittura, la numerazione, la tassonomia – tutti strumenti del sapere – vengono trasposti in un campo estetico dove l’ordine è solo un pretesto per generare disordine, e viceversa. In questa dialettica, l’arte di Boetti rivela la sua essenza più profonda: un pensiero che si fa immagine, un’immagine che si pensa da sé. 

Grazia Nuzzi 

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Grazia Nuzzi

Grazia Nuzzi

Nasce a Formia (LT) il 17 novembre 1977, si laurea alla facoltà di Lettere e Filosofia in Conservazione dei Beni Culturali, con indirizzo storico artistico presso la II Università degli Studi di Napoli, nel 2005. Nel 2006 è socio fondatore…

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