Crisi dei negozi. In pericolo non è solo l’economia ma anche il volto della città italiane
Nel nostro Paese chiudono circa 1000 attività commerciali al mese, una situazione cui porre un freno per tutela l’economia e anche il tessuto urbano…
Mentre le nostre città si riempiono di bed and breakfast sollevando l’indignazione dei residenti, nel nostro Paese si registra un’altra crisi, altrettanto rilevante per il futuro dei centri urbani: la crisi dei negozi che, secondo la Confederazione degli Esercenti, ha causato, tra il 2013 e il 2024, almeno 140.000 vittime. Sono circa 1.000 le serrande che si abbassano al mese. 1.000 locali che cedono il passo all’abbandono, a bar, enoteche o ristoranti, o a grandi catene internazionali.
Tendenza che continuerà a lungo, come dimostrato dall’analisi della Confederazione che traccia una linea chiara: nei prossimi 10 anni si registrerà un calo di un ulteriore 20%.
Le implicazioni della crisi dei negozi per l’Italia
Le implicazioni sono molteplici, a seconda dell’area geografica di riferimento. Nei piccoli centri lo svuotarsi delle strade significa una riduzione dei consumi e il trasferimento degli stessi su internet o nel centro commerciale più vicino, con un impatto aggregato considerevole. L’incremento degli acquisti online, spesso connotati da costi minori rispetto a quelli nei negozi, si avvicina a quella forma di disintermediazione che ha colpito altri settori dell’economia, per cui il risparmio è associato a un trasferimento di risorse verso economie estere, con transazioni che, seppur non esenti da tasse, sono indirizzate a soggetti internazionali riducendo la ricchezza aggregata. Condizione ben diversa da quella del piccolo negozio, in cui il trasferimento di denaro dall’acquirente al venditore implica la possibilità di reimmettere nel micro-mercato di riferimento sottoforma di nuovi consumi abilitati dai nuovi redditi le cifre spese. La stessa situazione si verifica per le grandi compagnie di proprietà internazionale. Anche in questo caso, infatti, la maggior parte dei ricavi delle vendite viene indirizzata verso le grandi aziende (solo raramente italiane), di abbigliamento, arredamento o oggettistica che popolano le nostre città. Nel frattempo, il valore economico degli immobili tende naturalmente a calare, generando una dissonanza tra le aspettative della proprietà e le effettive condizioni di mercato che può portare, come già accaduto in molti centri, a un progressivo svuotamento delle strade cittadine.
La crisi dei negozi nelle città turistiche d’Italia
Nei centri storici delle nostre città turistiche, invece, questo fenomeno di abbandono non si verifica, ma si afferma un processo di omologazione globale. “Standard” da cui, molti centri internazionali, privi di quella tradizione estetica che fino al Novecento ha caratterizzato le nostre città, hanno tratto un upgrade in termini di gusto, ma che nel contesto italiano spesso si rivela un adeguamento che risulta quantomeno forzoso.
Arginare la crisi dei negozi per tutelare il “Made in Italy”
Riconoscere la rilevanza del commercio non riguarda quindi esclusivamente una dimensione di natura economica, ma coinvolge a pieno titolo anche quel concetto di “Made in Italy” che il nostro attuale esecutivo si è sempre impegnato a sostenere. Si tratta, però, di un processo che senza una visione di medio respiro appare ormai inarrestabile: prima le botteghe di generi alimentari, poi le librerie, poi i negozi di abbigliamento. Tutte queste chiusure o trasformazioni riflettono un’Italia in cui viene meno il mercato necessario per restare aperti o la collocazione dell’attività in posizioni turistiche rende più conveniente la cessione di contratti d’affitto e licenze che il proseguimento della stessa.
Tutelare i piccoli esercenti per tutelare il tessuto urbano
Far rivivere il nostro commercio significa anche fornire una visione differente di come l’Italia intende il proprio tessuto urbano. E questo significa privilegiare, così come è stato fatto con le produzioni cinematografiche, tutelare l’italianità, ovvero le imprese che riflettono un carattere nazionale.
Chiaramente, un’azione di questo tipo non dovrebbe essere condotta attraverso il filtro più o meno velato dell’autarchia, quanto piuttosto attraverso incentivi a realtà internazionali miste, i cui investitori privati, interessati ad acquisire immobili in luoghi ad alta attrattività, mantengano (fattivamente, e non solo sulla carta) le attuali proprietà.
Sì agli investimenti internazionali ma con criterio
Aprirsi ai flussi internazionali non significa esclusivamente svendersi. Significa dare l’opportunità a chi vuole investire in Italia, di investire realmente nel nostro Paese. Integrare tale azione con politiche volte a favorire l’offerta di servizi culturali e creativi nei centri città, prevedendo, per determinate aree, delle zone economiche speciali per i servizi culturali, potrebbe aiutare il Paese a ridisegnarli, lasciando libertà di azione al mercato all’interno di un perimetro tutelato.
Essere attraenti è importante. Ma piacere a tutti i costi è una deriva che l’Italia dovrebbe evitare.
Stefano Monti
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