Il Libano riparte dall’arte contemporanea: la Aïshti Foundation riapre con una grande mostra
Dopo la recente guerra, la fondazione d’arte contemporanea più importante del Paese festeggia i 10 anni della sua nuova casa a Beirut portando in mostra oltre 70 grandi artiste del presente, dalla collezione dei coniugi Tony ed Elham Salamé
Atterrare a Beirut significa avere una panoramica sorprendentemente immediata sulla città e sulle sue differenze: la capitale libanese si suddivide in una “città alta” e in una “città bassa”, non tanto per le sue differenze altitudinali, quanto per quelle sociali, che si riflettono nella distanza tra grattacieli e caseggiati popolari. Eppure, anche molti elevati edifici della uptown non sono che scheletri, strutture la cui costruzione non è mai stata portata a termine a causa di continue ferite che hanno segnato il bel volto di questa città. Dalla guerra civile (durata quindici anni e conclusasi nel 1990) ai ripetuti conflitti con Israele (1982-1985, 2006, 2023-2024), passando per l’esplosione del porto nel 2020, che ha devastato gran parte del centro urbano. C’è anche, però, chi queste ferite tenta di ricucirle, investendo su Beirut e sul suo panorama artistico: la Aïshti Foundation promuove l’arte contemporanea attraverso mostre di ampio respiro e collaborazioni internazionali, portando in Libano i migliori nomi della scena globale – e viceversa.

La Aïshti Foundation a Beirut
Nata per valorizzare la collezione dei suoi fondatori, i coniugi Tony ed Elham Salamé, la Aïshti Foundation è oggi una delle realtà leader nella diffusione dell’arte contemporanea in Libano e nel Mediterraneo Orientale. Aïshti è anche il nome dell’impero che Tony Salamé ha costruito a partire dal 1989: una catena di grandi magazzini di lusso, meritevole di aver portato a Beirut i grandi marchi del fashion occidentale (e soprattutto italiano, visto il grande legame non solo professionale, ma anche affettivo che lega Salamé al nostro Paese). Il successo di questa operazione imprenditoriale ha permesso ai coniugi Salamé di dar vita a una collezione che oggi conta più di 4mila opere e che trova periodicamente casa all’interno degli ambienti espositivi progettati dall’architetto David Adjaye. Per celebrare i 10 anni dell’edificio – che nei suoi 35mila mq ospita anche boutique, spa, caffè e ristoranti con affaccio sul Mediterraneo, appena fuori Beirut – la Aïshti Foundation ha inaugurato una grande mostra a cura di Massimiliano Gioni e Roberta Tenconi, con più di 70 artiste di diversa generazione e provenienza che firmano oltre 200 opere – alcune già viste nella grande mostra Effetto Notte a Palazzo Barberini, Roma, 2024.

La mostra “Flesh Flowers” a Beirut
Si intitola Flesh Flowers la grande collettiva che occupa i tre piani espositivi di Aïshti Foundation. Un titolo tratto da un’opera di Miriam Cahn – presente in mostra con quattro lavori – dedicata a una varietà floreale (l’aro titano) che nel colore e nell’odore ricorda la carne putrescente. In questa commistione tra delicatezza e disgusto, tra bellezza e orrore dell’esperienza corporea e carnale si può trovare uno dei fili conduttori delle opere in mostra, seppur non sufficiente: qualsiasi categorizzazione, qualsiasi tentativo di lettura unitaria sarebbe una costrizione, per un corpus di lavori che – più che a una mostra – afferisce a un’esposizione di stampo museale (e che di questa ha anche la durata). È invece più facile trovare i poli che regolano le diverse tensioni tra i lavori, che nella stragrande maggioranza dei casi adottano il medium pittorico: astrazione e figurazione in primis nella pratica, libertà e rigore, deformità e geometria.

Le artiste della mostra “Flesh Flowers” alla Aïshti Foundation
Proprio nella tensione tra astrazione e figurazione si apre la mostra, con cinque opere della pittrice americana novantatreenne Joan Semmel che coprono quasi settant’anni di pittura. Come lei, sono diverse le artiste che da sole riescono a costituire piccoli brani autoportanti. Eppure, nonostante la difficoltà di riunire tutte le opere sotto una medesima egida narrativa o concettuale, sarebbe fuorviante non notare l’esistenza di nuclei tematici, dove la presenza – anche limitata ad un solo lavoro – di ciascun’artista è fondamentale per leggere tra le pennellate quelle scelte che definiscono un certo posizionamento rispetto al fare pittura. È il caso delle opere di artiste come Cecily Brown, Luoise Bonnet, Jana Euler, ma anche Sasha Gordon e Christina Quarles o la già citata Miriam Cahn, la cui sensibilità per una figurazione dai toni grotteschi le pone necessariamente in dialogo al di là delle distanze geografiche, anagrafiche o espositive. Ma è anche il caso di un diverso approccio all’astrazione tradizionale e maschile, dominata da una ricerca dell’eroismo e della grandiosità: un approccio che la critica Lucy Lippard ha chiamato “eccentric abstraction”, dove l’astrazione si fa “queer”, diventando veicolo di temi identitari e profondamente personali più che farsi messaggio universale, come – forse arrogantemente – accadeva in passato e in altri contesti. Il machismo dell’ambiente newyorkese di Pollock & co., dopotutto, è tutt’altro che un segreto. Opere come quelle di Julie Mehretu o Amy Sillman sono capaci di spostare lo sguardo. Si tratta di un’astrazione che sovverte anche il suo rapporto con il caso: non più espressione dell’inconscio, eppur mascherandosi come tale, il gesto diventa la manifestazione di una precisa volontà, che sia politica o meno – come vediamo nelle opere di Tauba Auerbach, di Pamela Rosenkranz e in particolar modo di Jacqueline Humphries.

Terminare con Etel Adnan. E ricominciare sempre
Chiudiamo questo articolo con l’artista che chiude anche la mostra: i paesaggi di Etel Adnan sono tramonti impossibili, i cui colori – più che a una tendenza espressionista – fanno pensare ad altri mondi, ad atmosfere aliene. Pacifiche vie di fuga dalla tragica realtà che ha sconvolto il Libano, suo Paese natale, nel corso del Novecento, e che emerge – insieme alla continua sensazione di sentirsi fuori posto (e fuori idioma) – nei suoi scritti e nelle sue poesie. Quello di Adnan era un nome immancabile nella collezione Salamé e nella mostra alla Aïshti Foundation. Ed era – da parte di chi scrive – una speranza d’incontro che è stata più che soddisfatta.
Alberto Villa
Beirut // fino a ottobre 2026
Flesh Flowers
AISHTI FOUNDATION
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