Il cinema come condanna e salvezza: la lezione di Gianni Amelio in questa intervista

“I miei film non vanno spiegati: significherebbe imbrigliare. Io semino e lo spettatore raccoglie. L’essenza non è interpretazione ma emozione, che ognuno deve vivere liberamente”: così Gianni Amelio, ospite d’onore del Lucca Film Festival 2025 – dove martedì 23 alle 21 al cinema Astra, prima della proiezione La tenerezza, riceverà il Premio alla Carriera – […]

I miei film non vanno spiegati: significherebbe imbrigliare. Io semino e lo spettatore raccoglie. L’essenza non è interpretazione ma emozione, che ognuno deve vivere liberamente”: così Gianni Amelio, ospite d’onore del Lucca Film Festival 2025 – dove martedì 23 alle 21 al cinema Astra, prima della proiezione La tenerezza, riceverà il Premio alla Carriera – riassume il gesto più autentico del suo lavoro, quello del non imporre, lasciando che ciascuno costruisca la propria verità, con la forza spesso fragile dei sentimenti. Nato in Calabria nel 1945, Amelio firma alcuni dei film più intensi del nostro cinema. Dopo l’esordio con Colpire al cuore, conquista la scena internazionale con Porte aperte, candidato all’Oscar, quindi con Il ladro di bambini, premiato a Cannes. Seguono Lamerica e Così ridevano, con cui ottiene il Leone d’Oro a Venezia. Negli anni successivi continua a raccontare storie potenti e personali, fino ai titoli più recenti come Hammamet e Il signore delle formiche. Autore rigoroso e appassionato, è l’unico regista italiano ad aver vinto tre volte l’EFA per il miglior film europeo, oltre a numerosi David, Nastri e Globi d’Oro.

amelio ritratto Il cinema come condanna e salvezza: la lezione di Gianni Amelio in questa intervista
Gianni Amelio, disegno di Martina Madrigali

L’intervista al regista Gianni Amelio

Il suo ultimo libro porta un titolo che è di per sé una dichiarazione d’intenti: Il vizio del cinema.
Quello è un vizio che non si perde, al massimo si guadagna. È la mia passione, la mia condanna e la mia salvezza. Se finirò all’inferno sarà per averne abusato, ma non potrei mai dire che il cinema abbia abusato di me: ero pronto ad accoglierlo fin da ragazzo.

Nelle prime pagine scrive che l’esperienza della sala cinematografica era quasi un rito collettivo. Oggi, invece?
È diventata fredda, solitaria. Quella magia l’ho vissuta, conosco bene la differenza. I ragazzi di oggi no: non hanno mai provato quell’intensità, non sono abituati. E c’è un problema ancora più grande: si legge poco. O meglio, si presta l’orecchio a qualcun altro che legge per noi. Ma la lettura silenziosa è un ascolto interiore: io leggo, tu leggi, eppure ci ascoltiamo, in un’esperienza intima che arricchisce. Se invece la voce è quella di un attore che interpreta, l’emozione passa attraverso un filtro.

Lo stesso vale per il cinema?
Vedere un film in sala non è come guardarlo su un tablet o in TV. È come partecipare a una messa in chiesa rispetto a seguirla sullo schermo: una differenza abissale.

Conserva dal 1955 un quaderno dove annota titoli, attori e voti, in una sorta d’archivio privato.Che valore ha la memoria cinefila nell’epoca digitale, dove il rischio che tutto si perda è alto?
Quel quaderno è stata la mia prima scuola: annotare era imparare a guardare. Oggi la memoria è ancora più preziosa: senza memoria non c’è sguardo. Nell’era digitale, dove tutto si consuma e rischia di svanire, la memoria cinefila è un argine contro lo smarrimento.

Sostiene che i film non vadano spiegati da chi li realizza. E se lo spettatore si perde?
Spiegare significa imbrigliare. Il cinema deve restare un’esperienza libera: chi fa un film semina, chi lo guarda raccoglie. L’essenza è arrivare all’emozione, non dare interpretazioni preconfezionate. Io ho una mia spiegazione, ma non credo sia necessario dirla; vorrei che ognuno fosse libero di riflettere vivendo il film soprattutto come emozione.

Rossellini diceva: “Mstrare senza dimostrare”, ma parlava anche di un neorealismo fatto di fantasia e autobiografia. Nel suo cinema come unisce l’osservazione della realtà al racconto personale?
Rossellini è stato fondamentale: osservare, essere curiosi della realtà e lasciare che i fatti parlino da soli. Allo stesso tempo il cinema porta con sé l’autobiografia, il prologo personale. Io cerco di coniugare osservazione e sentimento, realtà e memoria, evitando i luoghi comuni e lasciando emergere le conseguenze naturali.

Dalla pellicola al digitale, che salto è stato?
Una volta si diceva: “Andiamo a vedere una pellicola”. Il termine aveva un peso. La pellicola era un rullino, un negativo che diventava immagine positiva. Girare significava usare macchine ingombranti, costose, che rappresentavano quasi il 40% del budget di un film. Per decenni il cinema è stato questo. Oggi, invece, tutto è più leggero, più pratico, meno costoso. Il digitale ha i suoi vantaggi.

Qual era il ruolo del grande schermo prima che arrivasse la televisione?
Era l’unico divertimento fatto di immagini e suoni. Le sale erano affollatissime: negli anni Cinquanta e Sessanta si staccavano undici milioni di biglietti all’anno. Oggi, se arriviamo a tre milioni, è un miracolo. Poi arrivò la televisione, e con essa la crisi del cinema. I cellulari e i social, hanno disperso ulteriormente l’attenzione.

Rimprovera ai suoi nipoti di usare troppo i nuovi mezzi?
No, perché sarebbe nostalgico e inutile. Guardano un film sul cellulare? Va bene così. Io ho più di ottant’anni, ho conosciuto un’altra epoca, ma non posso fermarmi a piangere sul passato. Ai giovani non pesa, e forse dobbiamo essere noi ad adeguarci.

Le trasformazioni del cinema secondo Gianni Amelio

Certi strumenti cambiano anche l’espressività del cinema?
Assolutamente. Non userei mai, per esempio, un drone. Ma i giovani registi li maneggiano con naturalezza. L’espressività diventerà un’altra. Con il progresso si guadagna e si perde. È inevitabile.

Crede che questa trasformazione si connetterà a problemi più grandi?
Il progresso porta con sé anche perdite. Non abbiamo saputo proteggere il clima, e oggi viviamo estati insopportabili. Le democrazie, conquistate a caro prezzo dai nostri padri e nonni, si stanno sgretolando. Una volta c’era l’America, oggi non la riconosco più. Gaza e l’Ucraina ci ricordano che la morte di innocenti è ancora il prezzo delle guerre di potenza.

E in questa situazione, qual è il ruolo dell’artista?
La voce della cultura è sempre più debole, perché il potere la ostacola. Ha capito che la libertà degli artisti è un pericolo. Io non mi sento perseguitato come persona, ma come parte di una categoria che rischia di essere soffocata.

Il cinema per parlare d’attualità secondo Amelio

Campo di battaglia è una lente d’ingrandimento sul passato per parlare dei conflitti attuali, dall’Ucraina al Medio Oriente?
Non è un film di guerra, ma un film sulla guerra. La storia si ripete sempre, con drammaticità. Siamo sommersi dalle immagini e rischiamo l’assuefazione; ma il dolore, la perdita e la contraddizione morale restano gli stessi. Il film cerca di restituire quella continuità di senso affinché lo spettatore riconosca il filo che unisce passato e presente.

Non mostra il fronte, ma un ospedale militare: perché?
Perché la guerra, la vera guerra, si combatte dentro le coscienze. Due medici amici d’infanzia incarnano visioni opposte: l’uno obbedisce ciecamente alle regole militari, l’altro le infrange seguendo un’etica personale. È lì che nasce il conflitto, in quel cortocircuito morale che attraversa ogni essere umano. Il titolo è volutamente ambiguo: il vero campo di battaglia è interiore.

Ha citato Eschilo: “La prima vittima della guerra è la verità”. Vale ancora oggi?
Sempre. Ogni guerra porta con sé propaganda, retorica e menzogne. La verità cade subito, e resta solo la tragedia. Questo è valido allora come oggi: la guerra, con le armi o senza, è sempre una gravissima sconfitta umana.

Nel film “La tenerezza”, invece, tocca il tema dell’incapacità di comunicare affetto.
La tenerezza parla di un padre che non riesce a comunicare con i figli e cerca quel sentimento altrove, in una famiglia vicina. È un tema universale. Abbiamo perso la capacità di dire la tenerezza, e oggi ci sarebbe bisogno di un’educazione a viverla. Per me non esistono estranei: siamo tutti parte della stessa umanità.

Qual è il sentimento più importante, nella vita?
Il rispetto. Perché da lì nasce tutto: la libertà, la solidarietà, la possibilità di vivere insieme. È il primo dei sentimenti da coltivare. Senza rispetto, l’umanità si sgretola. Il cinema, nel suo piccolo, può ricordarcene l’importanza.

Su una bilancia di successi, pesa più la carriera o il sentimento?
Ho avuto una vita ricca di affetti, e questo conta più dei bilanci professionali. Certo, ho fatto film belli e meno belli, ma non è questo il punto. Senza sentimenti e relazioni, senza una realizzazione personale, non sarebbe vita. E io in questo sono stato fortunato.

Ginevra Barbetti

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Ginevra Barbetti

Ginevra Barbetti

Nata a Firenze, si occupa di giornalismo e comunicazione, materie che insegna all’università. Collabora con diverse testate in ambito arte, design e cinema, per le quali realizza soprattutto interviste. Che “senza scrittura non sarebbe vita” lo ripete spesso, così come…

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