Cultura nera contro l’antropocene per una visione del mondo bilanciata e paritaria
Dopo secoli di supremazia della cultura occidentale finalmente stiamo assistendo a un bilanciamento delle visioni. Movimento che ci auguriamo non corrisponda tanto alla fine del sogno americano, quanto all’inizio di un sogno che connette, agevola, guarisce
“Dimmi una cosa, Stamp.» Paul D aveva gli occhi lucidi. “Dimmi solo questo. Un negro quanto deve sopportare? Dimmi. Quanto?” “Tutto quello che può”, rispose Stamp Paid. «Tutto quello che può”. “Perché? Perché? Perché? Perché? Perché?”1
Nell’ultima classifica sulle persone di maggior potere nel mondo dell’arte, pubblicata da ArtReview alla fine del 2024, undici tra i primi venti nominati sono persone nere e solo tre sono bianchi. Considerando che la prossima Biennale di Venezia sarà guidata dallo staff che fu della scomparsa Koyo Kuoh, africana, e che la prossima Documenta sarà anch’essa curata da Naomi Beckwith, un’afroamericana proveniente dallo staff del Guggenheim, è probabile che ci sia un’epidemia di negritudine nelle prossime mostre leader del settore. Altra presenza importante è quella di protagonisti di cultura araba, a partire dalle due super-collezioniste e curatrici Sheika Hoor Al Qasimi (Sharjah) e Sheikha Al-Mayassa Bint Hamad Bin Khalifa Al Tani (Qatar).
L’élite intellettuale multiculturale che spaventa Trump
Ora è più facile capire perché Trump se la prenda con le università come Harward o il MIT: rappresentano l’élite intellettuale, quelli che a Boston chiamano “bramini” per il loro ruolo sacerdotale, che a partire dal senso di colpa occidentale per l’attitudine alla conquista dell’altro hanno intrapreso la via dei diritti civili, primo tra tutti la decolonizzazione. Gli intellettuali di riferimento sono molti, a parte la cosiddetta French Theory, portata negli Stati Uniti da Silvère Lotringer con la sua rivista Semiotext(e) e andata a nutrire le pagine di October e di Artforum. Libri come I luoghi della cultura di Homi Bhabha2 dettano legge dagli Anni Novanta, così come alcuni testi di Saskia Sassen, di Arundati Roy, di Amartya Sen.

Finalmente emergono testi che propongono una lettura “diversa” della storia
In più si sono riscoperti scritti bizzarri ma fondativi, come il Manifesto Antropofago del brasiliano Oswald de Andrade (1928), e sono state fatte ricerche di antropologia rivolte alla riscoperta dei riti mesoamericani o africani o asiatici. Per averli portati in superficie, la mostra molto discussa Magiciens de la Terre (Centre Pompidou, Parigi, 19893) resta seminale per tutte le mostre decoloniali che sono venute dagli Anni Novanta in poi: autori che inneggiano alla creolizzazione come modo per affrontare e annullare la differenza etnico-culturale senza sopprimerla, come Edouard Glissant4, sono diventati dei punti di riferimento, come pure tutta la letteratura nera: dai lasciti di Martin Luther King e di Malcom X agli studi sul rapporto tra razza, genere e capitalismo di Angela Davis5, alle incitazioni di bell hooks a “disimparare” i lati oppressivi della cultura dominante6, fino ai romanzi del premio Nobel Tony Morrison.
Le nuove teorie che rileggono l’antropocene includono autori afroamericani: nei programmi di Arti Visive del MIT sono stati decisivi artisti come Renée Green, che a sua volta ha studiato ad Harvard; in quelli di Cornell è stata fondamentale la presenza di Salah Hassan; a Santa Cruz, dove è docente emerita Donna Haraway, Isaac Julien insegna “Storia della Coscienza”. Tra i teorici più citati troviamo Saidiya Hartman della Columbia University, che propone una rilettura della creatività nera attraverso la mescolanza di documentari veri e narrazioni fittizie7, nonché sudafricani come Achille Mbembe: nel suo ultimo libro The Earthly Community (2022)8, propone di riscoprire l’animismo, l’estetica oggettuale e le cosmologie africane come contromisure al flusso depauperante del tecnocapitalismo. Il diffuso impiego dell’antropologia e della biologia ha rubato la scena, nella critica d’arte, alla filosofia e alla storia artistica, dando credibilità ad autrici come Anna L. Tsing; nel suo ultimo volume, Field Guide to the Patchy Anthropocene9 scritto con il gruppo multirazziale Feral Atlas, mette in guardia contro ogni consumo inutile di suolo e i nostri comportamenti estrattivi che potrebbero dare luogo all’inatteso e abnorme proliferare di forme di vita laterali. In questo contesto, ogni cultura indigena diventa una controcultura da usare in modo attivista per salvare sia il pianeta nel suo complesso, sia le differenze culturali tra gruppi umani.

Il multiculturalismo ci porta verso un’estetica della cooperazione
La cultura universitaria ha accompagnato le tendenze dell’arte in due percorsi precisi. Il primo è stato fare dell’arte “altra” un ennesimo oggetto di prestigio, culto, vendite stratosferiche e in definitiva una commodity. Ma il secondo percorso va in direzione contraria: diminuisce proprio la pressione che l’idea occidentale di arte ha sparso nel mondo, fondata sull’oggetto unico, capace di esprimere idee, nato da un individuo dotato di un’intuizione quasi geniale: una tipologia che si è diffusa in Occidente e che l’Occidente ha diffuso nel mondo perché è adatta al sistema economico liberista; e non da oggi, ma da quando nacque il capitalismo commerciale, tra basso Medioevo e Rinascimento. Aa quel tempo, i manufatti che diventavano investimenti erano libri miniati, manuali di mercatura o icone sacre. I paesaggi e i ritratti sarebbero arrivati un po’ dopo alla grande diffusione, nelle collezioni e nelle vaste. Oggi siamo riusciti ad affermare questa tradizione come se fosse l’unica, distorcendo le idee di arte diffuse nei territori del mondo; e questo al punto che l’oggetto votivo, la manifattura creata in gruppo, le tipologie di produzione decorativa più amate da ogni popolo, dai tappeti ai mandala, sono stati largamente dismessi o depotenziati, entrando spesso nella categoria del souvenir. Momenti espositivi come Documenta Fifteen (2022) e Sharjah 2025 hanno mostrato la volontà di tornare indietro e di costruire un’estetica basata sulla cooperazione più che sull’individuo singolo.
Nella cultura e nell’arte spazio ad un bilanciamento culturale
Tutto è iniziato dopo una presa di coscienza della debolezza occidentale nel contesto di un mondo globalizzato, avvenuta dagli Anni Novanta in poi, contemporanea all’emergere della Cina e dell’India e all’inizio della decadenza americana. È da allora che anche nell’arte si sono aperti spazi di risarcimento per le culture oppresse: già nel 2002 Documenta aveva chiamato il nigeriano Okwui Enwezor (poi alla Biennale nel 2015) che ha veramente cambiato le regole del gioco. È anche merito suo se oggi gli artisti più visibili sono neri, da Yinka Shonibare a Steve McQueen, Theaster Gates, Simone Leigh, Mark Bradford, Precious Okoyomon, John Akomfrah, El Anatsui, Ibrahim Mahama, Carrie Mae Weems, Kerry James Marshall, Isaac Julien (di cui attendiamo una clamorosa prima mondiale a Palazzo Te, dal 4 ottobre) fino a Otobong Nganka (reduce da una personale al MoMA l’estate scorsa). Tutti coloro che ho menzionato, seppure con grandi carenze, sono fautori di una direzione culturale opposta, inevitabilmente, agli sforzi fatti dagli USA, dai tardi Anni Quaranta, perché la supremazia culturale passasse dall’Europa all’America bianca. Non si contemplavano altri continenti rivali. Per quell’operazione si mobilitarono critici del tenore di Clement Greenberg, membri del Congresso e la CIA stessa10. É vero che oggi molti degli artisti di maggiore successo al mondo restano statunitensi, neri compresi, ma certo non sono portatori di una cultura dominante e, se lo sono, come la pluripremiata Nan Goldin, è perché dentro al loro lavoro alberga un’autocritica aspra dell’american way of life che si ribalta nella sua wild side.

Il mondo dell’arte unito in nome di parità, giustizia e uguaglianza
Ma intellettuali e artisti non sono più i benvenuti negli USA di oggi: l’elettorato di Trump, bianco e povero, non sopporta CEO danarosi, scienziati distanti e una cultura politica e umanistica in cui a emergere sono valori lontani da quelli del cittadino medio americano; se non altro per il timore ragionevole che gli afroamericani, nel mondo del lavoro, accettino paghe più basse e sopportino comportamenti più violenti, quindi abbassino la retribuzione in termini sia monetari che di rispetto. Considerando che rappresentano solo il 22% della popolazione, la mobilitazione in loro favore a molti sembra eccessiva.
Come eccessivo sembra il nuovo corso aperto dalle lotte dei coloured, cioè l’attenzione al mondo LGBTQA+ che non supera il 5% della popolazione. Il fatto è che lamenti come quello che apre questo articolo, che si riferisce al periodo della guerra di Secessione, non sono stati superati e risuonano nel recente “I can’t breathe”. E non importa più di quali negritudine si stia parlando: lo Shaulager di Basilea, che Steve McQueen ha trasformato in un luogo di meditazione e rinascita, riempiendolo quest’estate di neon colorati e di un misto di jazz e blues, parla di un’oppressione generale e di una cultura da guarire, da qualsiasi ex impero sia scaturita. La valanga del problema razziale è aperta e si continuerà a lungo a dovere meditare sul trauma razziale; che non solo non è stato superato in America11, ma è risorto in Africa sotto forma di sfruttamento bianco e cinese. Il fatto è che non importa più di quale negritudine si stia parlando: lo Shaulager di Basilea, che Steve McQueen ha trasformato in un luogo di meditazione e rinascita, riempiendolo quest’estate di neon colorati e di un misto di jazz e blues, parla di un’oppressione generale e di una cultura da guarire, da qualsiasi ex impero sia scaturita.

Non fine del “sogno americano” ma inizio di un “sogno multiculturale” aperto e inclusivo
Uno slogan come Make America Great Again può significare molte cose, dal senso di riscatto per una decadenza ormai palese alla volontà di ridare corpo a un’America dominata dai WASP, che chiaramente non ci sarà mai più: persino la Apple è stata guidata da un meticcio. E questo non fa che accrescere l’odio trumpiano verso le élite che proteggono qualsiasi genere di diversità.
Come andrà a finire? Per il momento, chi ci rimette maggiormente sono alcuni artisti bianchi che meriterebbero retrospettive conclusive, ma che riviste come “October” hanno epurato da tempo: tra questi, Joseph Kosuth. Non ci rimettono molto, invece, gli emergenti di molti continenti, che appartengono a una generazione in cui la creolizzazione e il meticciato sono la regola; non ci rimette il grande dinamismo espositivo che si è aperto tra Emirati Arabi, Arabia Saudita, India, Cina, Giappone. Come in ogni fenomeno radicale, qualche verità andrà perduta a favore di promozioni forzate. Ma è un passaggio inevitabile, che chiunque avrebbe potuto prevedere da quando i muri tra popolazioni, per quanto li si continui ad erigere, hanno iniziato a perdere rilevanza di fronte all’integrazione digitale; e da quando, paradossalmente, la globalizzazione mostra i suoi lati deboli12 e ciascuna cultura è fiera di potere portare la sua traccia.
Più che alla fine del sogno americano, vogliamo sperare di essere all’inizio di un sogno che connette, agevola, guarisce. Difficile dirlo mentre, fuori dal mondo dell’arte, si spara ai civili e si affamano i bambini. Ma questo è un altro capitolo o più probabilmente lo stesso, quello della rivalità tra gruppi etnici, ampliato e portato fuori da musei e università.
Note
[1] Toni Morrison, Amatissima, Sperling & Kupfer, Milano 2013, p. 341
[2] Homi Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Milano 1993
[3] Centre Pompidou e altre sedi, Parigi 1989, a cura di Jean-Hubert Martin
[4] Cfr. Edouard Glissant, Poetics of Relations (1990), Penguin, New York 2025
[5] Angela D. Davis, Donne, razza e Classe, Algre, Roma 2013
[6] bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Meltemi, Milano 2022
[7] Hartman, Saidiya Wayward Lives, Beautyful Experiments: Intimate Histories of Rioutous Black Girls, Troublesome Women, and Queer Radicals W. W. Norton & Company, New York 2019
[8] Achille Mbembe, La comunità della terra, Marietti, Milano 2024
[9] Anna L. Tsing et. Al., Field Guide to the Patchy Antropocene, Stanford University Press, Stanford 2024
[10] Cfr. Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale – La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, Roma: Fazi 2004
[11] Cfr. Judy Mary Cénat, Complex Racial Trauma: Evidence, Theory, Assessment, and Treatment, “Perspect Psycol Sci”, 2022, pp 657-687, dove si trova questa tavola interessante.
[12] cfr. Peter Zeihan, The End of the World Is Just the Beginning: Mapping the Collapse of Globalization, 2022, Harper Business, 2022
Angela Vettese
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