Il sottobosco della cultura indipendente a Venezia? Più vivo che mai
La scena artistica indipendente di Venezia opera all’ombra del grande sistema, ma è tutt’altro che invisibile per chi vive la città tutto l’anno. Abbiamo conversato con Gabriele Longega e Giulia Mariachiara Galiano, tra i protagonisti del panorama indipendente, per comprendere le difficoltà di creare narrative alternative all’istituzione. E al profitto
Chi visita Venezia una volta all’anno, o una ogni due, difficilmente riuscirà a vedere oltre le grandi istituzioni e fondazioni, i palazzi storici, e ovviamente la Biennale. Forse i giochi di riflessi e le gibigiane sotto i ponti rischiano di accecare, e nascondere allo sguardo piccole realtà non meno importanti per il tessuto urbano. Chi la vive quotidianamente, e sceglie di allineare le proprie lancette biologiche alla lentezza di questa città (e agli inverni che non passano più) sa che, calle dopo calle, si dirama un sottobosco lontano dalle luci, dagli yacht che affollano la laguna, dai grandi nomi dell’arte internazionale, e invece vicino alla comunità locale, sempre più rarefatta, ma non per questo meno combattiva. Una comunità, quella che abita la Venezia contemporanea, estremamente variegata: dagli studenti di IUAV, Ca’ Foscari e dell’Accademia di Belle Arti (provenienti da tutt’Italia e che hanno scelto Venezia come casa, almeno transitoria), ai giovani lavoratori dell’arte e non solo (che qui hanno deciso di provare a rimanere), fino a chi ce l’ha fatta, ed è riuscito a trasformare il domicilio temporaneo in una residenza permanente e preziosissima. Proprio per rendere onore ad una (r)esistenza trans-dimensionale, trans-generazionale e trans-settoriale, vogliamo dare voce a quelle realtà che credono in un futuro diverso per questa città impossibile.
Una Venezia sempre più istituzionalizzata?
Solo nella prima metà del 2025, Venezia ha visto l’apertura di tre nuovi spazi per l’arte di alto profilo (e portafoglio): ad aprile ha inaugurato AMA Venezia, lo spazio voluto dal collezionista belga Laurent Asscher; a maggio ha aperto i battenti la nuova sede veneziana della Nicoletta Fiorucci Foundation, con una bella mostra curata da Hans Ulrich Obrist; infine, a giugno è stata la volta di Casa Sanlorenzo, nuovo polo che porta il nome dell’importante maison di yacht. Nuove inaugurazioni che si inseriscono in una tendenza (che comprende anche il circuito Berggruen con Palazzo Diedo e Casa dei Tre Oci) che non sembra fermarsi e che, ben inteso, non è negativa di per sé. Anzi, ciascuna di queste realtà recupera edifici dismessi, riscrivendo la narrazione di un luogo destinato ad una inesorabile, per quanto bellissima, decomposizione. Questo fenomeno non si lega solamente alle grandi fondazioni internazionali, ma anche – e in modo considerevole – alle gallerie d’arte. Abbiamo già mappato, sulle pagine di Artribune Magazine, le nuove gallerie della città, con tanto di interviste, riscontrando che a guidare galleristi come Tommaso Calabro, Patricia Low, Michele Barbati, e Jan e Tina Wentrup nella scelta di approdare in laguna c’è soprattutto la grande e costante attrattiva di pubblico internazionale. Oltre alla grande facilità, dovuta principalmente all’assetto urbanistico della città, di fare rete. E le gallerie, la rete, l’hanno fatta. Marzo 2025 ha visto un Venice Gallery Weekend di successo, il primo con una strategia di comunicazione coordinata: per tre giorni, diciassette gallerie della città si sono alternate con aperture, eventi, aperitivi e colazioni, riscontrando visibilità locale, nazionale e internazionale. In breve, Venezia si sta configurando sempre di più un luogo – a partire dai musei privati come quelli della Pinault Collection e di Fondazione Prada – riservato ai grandi nomi dell’arte internazionale, o quantomeno alle alte capacità di spesa, tanto degli organizzatori quanto dei collezionisti. Complici la Biennale e il suo ecosistema, la diretta conseguenza è un pubblico d’élite che da un lato porta ovviamente ricchezza nelle casse della città, ma dall’altro cannibalizza gli spazi della comunità locale, e ne stravolge le lancette.
I luoghi della Venezia indipendente
Nonostante questa tendenza, o forse proprio in opposizione ad essa, Venezia conserva, come dicevamo, un’anima indipendente che si attiva tutto l’anno – a differenza di manifestazioni stagionali come la Biennale e tutti i grandi eventi che le gravitano attorno. Un vero e proprio ecosistema basato su relazioni, incontri, affetti: fulcri di questo intreccio sono i luoghi e le persone che li attivano. Da spazi più canonicamente espositivi come Joystick o il più rodato Spazio Punch a collettivi e studi d’artista come zolforosso e i neonati Deposito 2235 e Lama Farfalla, fino a luoghi polifunzionali come About Bari, terzospazio, Awaii, S.a.L.E. DOCKS. Per non dimenticare le librerie indipendenti che, seppur non esattamente caratterizzate come luoghi di produzione dell’arte contemporanea, forniscono preziosissimo carburante intellettuale ad artisti e creativi. Gli organismi di questo bioma sono talmente tanti e mutevoli che sarebbe impossibile mapparli tutti: più che come un osservatorio, queste pagine vogliono proporsi come un affondo all’interno di una realtà probabilmente invisibile all’esterno, eppure fondamentale per chiunque scelga di operare nella città di Venezia. Una realtà che è anche una rete di sostegno reciproco, un promemoria di come la solitudine – persino in un settore precario come quello del mondo dell’arte – sia solo un’illusione. Per entrare nel dettaglio di cosa significa operare come soggetto indipendente in una città come Venezia, abbiamo chiesto a Gabriele Longega (artista e presidente del collettivo zolforosso) e a Giulia Mariachiara Galiano (curatrice di terzospazio, project space di zolforosso) di raccontarci il loro lavoro e la loro storia.
Intervista con Giulia Mariachiara Galiano e Gabriele Longega
Ciao Giulia, ciao Gabriele. Grazie per aver accettato di partecipare. Iniziamo da Come Come, la grande rete delle realtà indipendenti di Venezia e Mestre: mi raccontate la sua genesi?
Gabriele Longega: Come Come nasce a seguito di vari tentativi, l’ultimo dei quali, il Venice Independent Art Scene (VIAS), si era in parte formalizzato, pur coinvolgendo solo gli studi di Mestre. La volontà di includere anche quelli di Venezia ci ha portate a incontrare alcune rappresentanti dei diversi spazi, e da lì è nata l’idea di concretizzare quel “fare rete” di cui tanto avevamo parlato. Oggi cerchiamo di portare avanti questa rete non solo attraverso costruzioni o strutture definite, ma anche seguendo gli sviluppi organici degli spazi e delle relazioni che li attraversano.

A differenza delle gallerie, che necessariamente seguono delle logiche di profitto, gli spazi indipendenti non sono in competizione, anzi: l’essere nella stessa situazione e creare un circuito porta a tutti un beneficio, una possibilità di visibilità e di incontro…
Giulia Mariachiara Galiano: Esatto, sembra banale dirlo ma l’unione fa la forza. E poi secondo me un’altra cosa importante della rete è la possibilità di mettere in comune delle risorse, ma anche semplicemente di accordarsi su quando fare gli eventi senza sovrapporsi.

Pensate che la città di Venezia, a livello urbanistico, favorisca la collaborazione?
GMG: Essendo una città molto piccola, la prossimità tra gli spazi indipendenti è innanzitutto fisica, oltre che relazionale (si può dire che siamo tutti amici). In una città come Roma, dove abbiamo entrambi vissuto, questa cosa non può avvenire per molti motivi, la sua estensione in primis.
Cosa distingue Come Come da altre reti di spazi indipendenti in Italia
GL: Probabilmente la varietà di soggetti coinvolti: non solo spazi espositivi, ma anche e soprattutto collettivi artistici e curatoriali, studi d’artista, residenze, persino piattaforme dedicate al cibo…
Tutte esperienze che spesso hanno una natura effimera, e per questo ancora più preziosa…
GL: Esatto, Come Come continua ad accogliere realtà indipendenti, ma soprattutto a tenere traccia di quelli che non esistono più. E questo rende Come Come anche un archivio di esperienze, eventi, persone che hanno lavorato e portato contributi magari temporanei ma importanti per la cultura, per l’arte, per nuovi modi di fare nella città di Venezia.
Tenere traccia è importante e soprattutto è necessario per combattere la difficoltà di continuare un’attività a lungo. Quanto pesa la precarietà economica per gli spazi indipendenti di Venezia?
GMG: Pesa molto, soprattutto in una città che attira, nel bene e nel male, grandi capitali privati. Poi c’è Venezia che, nel contrasto tra la sua dimensione e la densità delle sue attività e della sua offerta, è un osservatorio perfetto per situazioni economiche che in realtà sono globali, e che magari in altri contesti più estesi si notano meno. E non sono solo le grandi fondazioni internazionali a sottolineare questo fenomeno: la Biennale stessa, con il suo apparato di eventi collaterali, contribuisce a un rincaro immobiliare ormai insostenibile. Spesso queste istituzioni poi non portano avanti un’indagine che misuri l’impatto sul territorio, mostrando disinteresse per chi Venezia la vive tutto l’anno e non solo durante i grandi vernissage.
GL: Beh, Venezia è sempre di più una seconda casa dei grossi collezionisti italiani ed esteri, che nelle poche settimane che passano qui difficilmente riusciranno a farsi un’idea della scena locale. Una seconda casa non permette un reale processo di sedimentazione, o comunque di valorizzazione di quello che fermenta costantemente, e non solo durante l’apertura della Biennale.
A proposito di Biennale, il grande leviatano: c’è dialogo? E se non c’è, pensate che ci possa essere? Ma soprattutto: vorreste che ci fosse, e che Biennale riconoscesse l’importanza di questo ecosistema per la sua città?
GL: Credo ci sia un certo disinteresse da entrambi i lati… Biennale non ha mai mostrato una particolare inclinazione verso la scena indipendente, e anche da parte nostra c’è sempre stata la scelta precisa di non seguire il calendario o la programmazione di Biennale, per i motivi che dicevo prima.
Anche se recentemente molti esponenti della cultura locale si sono attivati per chiedere un maggiore legame tra la città e il Padiglione Venezia ai Giardini…
GL: Sì, c’era stata questa esperienza di riflessione comune, che ha coinvolto operatori e operatrici culturali indipendenti sul ruolo del Padiglione Venezia dentro Biennale, sollevando diversi quesiti: qual è la sua funzione? Come viene gestito? Perché non viene utilizzato in una chiave più situata, come un avamposto, un osservatorio che dia risalto a quello che succede veramente in città?
Qual è stato l’esito?
GMG: Ovviamente nessuno. Dal Comune non abbiamo ricevuto risposte edificanti, nonostante tra i firmatari ci fossero non solo spazi indipendenti, ma anche grandi nomi dell’arte e della cultura veneziana, oltre alle gallerie d’arte. Non nascondiamo che su queste tematiche il dialogo con il Comune sia prevalentemente a senso unico, purtroppo. Ed è drammatico in una città con un potenziale tanto elevato. Ma forse è un’altra delle contraddizioni che a Venezia risultano più evidenti che altrove, per la sua concentrazione: amministrazione e politica si sovrappongono, e tutto diventa poco trasparente.
L’istituzione è quindi sempre problematica per uno sviluppo sano dell’ambiente culturale?
GMG: Non ho una visione completamente negativa delle istituzioni. Penso che ci siano anche delle istituzioni maggiori che sono capaci di attivare processi di divenire minoritario, decostruendosi e adottando prospettive decoloniali. Le istituzioni così intese possono diventare dispositivi performativi e trasformativi molto interessanti.
Ad esempio?
GMG: Mi viene in mente il Reina Sofía a Madrid, che con il progetto Museo Situado ha attivato una rete di collaborazioni con collettivi e associazioni locali per ascoltarne desideri e conflitti. Ma penso anche al Casco Art Institute di Utrecht, che ha riformulato la propria missione attorno al concetto di commons, sperimentando modalità di organizzazione culturale fondate sulla cooperazione e sull’autogestione.
Esistere come organismo indipendente. L’esperienza di zolforosso
Parliamo di zolforosso: in cosa consiste e come nasce?
GL: zolforosso è un collettivo di artisti e curatori che condividono spazi e idee. Nasce nel 2017, ed è uno dei collettivi di questo genere più longevi ancora in attività in Italia. A Venezia erano inizialmente un gruppo di 7/8 artiste e artisti che, dopo aver frequentato l’Accademia, hanno deciso di voler continuare a lavorare insieme e di uscire da una struttura accademica, allargando i propri orizzonti e anche il modo di lavorare. Quindi si stabiliscono in uno spazio nel sestiere di Santa Croce, che abbiamo tuttora, e iniziano a lavorare in un modo auto-organizzato, mediante riunioni e decisioni di gruppo. Via via il collettivo si ingrandisce, tanto che nel 2020 alcuni dei fondatori decidono di prendere in affitto un altro spazio a Mestre: oggi tra le due sedi siamo circa 16 artisti con pratiche e background diversi, sia in ambito veneziano che non.

Oltre agli studi di Mestre e Venezia, zolforosso gestisce uno spazio espositivo: terzospazio. Me lo raccontate?
GL: Sì, zolforosso aveva bisogno di un luogo che, più che “spazio espositivo”, preferiamo definire “project space” o “spazio del public program”. Crediamo che il termine “spazio espositivo” rischi di ridurre questo luogo a un format che non ci appartiene del tutto, ovvero quello del ciclo opening-mostra-chiusura. Lo intendiamo come uno spazio dove dar vita a un programma, o ancora meglio a un processo pubblico.
GMG: E oltretutto risponde anche a una vocazione di zolforosso che c’è sempre stata, e cioè la partecipazione alle lotte politiche cittadine, come quella riguardante la questione grandi navi. C’è stato sempre un forte radicamento, accompagnato a una coscienza critica del fare arte. La scelta di aprire terzospazio (che è attivo dal 2021) è stata guidata proprio dalla volontà di ampliare e rafforzare la connessione tra gli artisti e la comunità locale.
Qual è la vostra modalità di lavoro su terzospazio?
GMG: Ci siamo interrogati molto sul formato che volevamo portare all’interno dello spazio, ed è una cosa che continuiamo a fare. In generale, fin da subito, abbiamo voluto interrogare la modalità che abbiamo di entrare in contatto con le ricerche degli artisti: piuttosto che concentrarci sull’esposizione di opere o in generale su un’attivazione saltuaria e statica dello spazio, abbiamo preferito aprire alle persone la ricerca degli artisti attraverso il processo, e non solo il risultato.

In che modo?
GMG: Ad esempio con format a cavallo tra una rassegna e una residenza: nel 2023, insieme con Martino De Vincenti e poi Alessandra Luisa Cozzi, abbiamo attivato il programma Dispensa, costituito da sette residenze che risultavano poi nell’attivazione dello spazio attraverso un public program costellato di incontri con ospiti che di volta in volta invitavamo, per far luce su diversi aspetti della pratica dei singoli artisti e artiste, creando una continuità nell’esperienza di quella ricerca. Quindi non era neanche necessario alla fine della residenza avere una restituzione che avesse l’aspetto di una mostra: poteva essere un happening, un open studio…
Gli artisti che hanno partecipato facevano parte di zolforosso o erano anche esterni?
GMG: In quel caso la rassegna è stata molto legata a zolforosso, anche per legare la programmazione alla comunità locale. Tuttavia, abbiamo chiesto loro di invitare altri artisti da fuori, per creare sinergie al di là del mero contesto veneziano: le residenze, quindi, erano sempre da due o tre persone. Abbiamo avuto artisti da varie parti d’Europa, una dinamica molto arricchente.
GL: Esatto, dopo i primi due anni di terzospazio abbiamo collaborato con quasi un centinaio tra artisti, curatori, ricercatori di circa dodici nazionalità diverse, con differenti background e con un gender gap praticamente nullo, ed è una cosa di cui siamo molto contenti perché alla fine dei conti siamo riusciti anche su questo a staccarci da una triste media nazionale, anche nel mondo dell’arte.
Com’è proseguita la programmazione?
GMG: Dopo questa esperienza che si è conclusa a gennaio 2024 abbiamo iniziato nuovi format legati anche maggiormente a una dimensione ambientale, intesa come modalità ecologica di pensare lo spazio: non un semplice contenitore, ma un corpo vivo, collettivo e in continua trasformazione. Questo ci ha portato a collaborare sempre di più con altre realtà locali, attivando pratiche di riscrittura dello spazio, esplorazioni e derive. Abbiamo esplorato tanto il territorio lagunare e le sue isole, dal Lazzaretto Nuovo alle Vignole e al Torcello, per riflettere sempre su e attraverso le arti visive.
Come si posiziona terzospazio all’interno del panorama veneziano? In che modo, insomma, riflette sulla propria condizione di luogo indipendente?
GMG: È un terreno in cui la nostra ricerca si sta addentrando sempre di più. Stiamo rafforzando la nostra consapevolezza di spazio alte istituzionale, o comunque di spazio indipendente. Attualmente stiamo portando avanti un nuovo programma che si chiama Fabulazioni minori, con cui intendiamo rafforzare le alleanze a crearne anche di nuove con realtà indipendenti e collettivi anche al di là dei confini veneziani e nazionali. Pensiamo molto nei termini di una propagazione delle istanze indipendenti, ci vogliamo fare casse di risonanza anche per quelle realtà che non hanno uno spazio.
GL: Ci proponiamo come un laboratorio alchemico (e il nome zolforosso nasce proprio da questa idea), un luogo di produzione e trasformazione basato sulla contaminazione reciproca. Ed è un processo non concluso, che si riflette nel nostro approccio, che è molto organico e ricettivo alle contaminazioni. Lavoriamo a partire da relazioni interpersonali: l’apertura nei confronti dell’altro, la porosità, sono il primo passo di ogni nostro progetto.
GMG: Esatto, c’è questa idea di fondo del “divenire altro da sé”, che poi spiega anche il nome di terzospazio: un luogo che cerca di non cristallizzarsi mai in una logica binaria, oppositiva, canonica. E si lega poi a tanti “divenire”: divenire donna, divenire minore, divenire terzo, appunto… L’identità oggi è anche un limite, e questo concetto di terzità (che si ispira al Manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément) indica uno spazio liminale in cui si possono generare nuove alleanze, nuovi ecosistemi in grado di attuare un processo di riscrittura continua dello spazio stesso.
Un atteggiamento profondamente politico, eppure per nulla ideologico…
GMG: Sì, quello che rappresenta terzospazio è più una tensione che un’ideologia, una modalità di fare le cose. Perché gli ideali rischiano di catturarti comunque dentro un’ulteriore forma identitaria. Ovviamente tutto è politico, quindi non si tratta di depoliticizzarsi, ma di mettere la politica direttamente nell’approccio, più che nella nostra definizione. Spesso nel mondo dell’arte si tende a mettere le mani avanti per dichiararsi politici, ma secondo me non ce n’è bisogno. Siamo già tutti e sempre intrinsecamente politici.
Vi riconoscete nella parola “resistenza”?
GMG: Non direi che terzospazio o zolforosso siano luoghi di resistenza, no. Noi siamo uno spazio di esistenza: stiamo formando un mondo al di fuori delle logiche istituzionali perché sia possibile continuare a dichiararsi liberi.
Alberto Villa
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