Per i 550 anni dalla nascita di Michelangelo, Wang Yancheng è ospite a Firenze 

Alle Gallerie dell’Accademia una nuova mostra celebra Michelangelo attraverso la pittura dai colori intensi ed espressivi del grande artista cinese Wang Yancheng, che invitano a riflettere sulla forza spirituale di capolavori come il David e i Prigioni

Il principio di ogni cosa è il vuoto.
Il vuoto non è nulla ma è pieno di spirito e di tensione, e da questa energia scaturiscono i colori e dai colori l’immagine e quindi il mondo reale. È da questa condizione originaria che prende forma la mostra Luce energia infinito di Wang Yancheng (Cina, 1960), inaugurata alla Galleria dell’Accademia di Firenze, in uno degli spazi più simbolici dell’arte italiana, dove la modernità silenziosamente si misura con la potenza del passato. 

Wang Yancheng a Firenze per i 550 anni dalla nascita di Michelangelo 

Il vuoto è un’esigenza creativa; secondo Wang Yancheng non è assenza ma una condizione di possibilità, forza viva e rigeneratrice. Nelle ampie superfici delle sue tele si manifesta come un magma vitale, pieno di tensione e di aspettativa. Il curatore Gabriele Simongini coglie uno “stato materiale che ribolle di possibilità”. Nei dipinti più recenti – di dimensioni monumentali –si traduce in stratificazioni cromatiche che evocano paesaggi interni e cosmici, energie vitali, vibrazioni primordiali, dove il colore esplode come un “germoglio” che genera il reale. Non più definizione, ma condizione ontologica del divenire. 

L’esposizione si inserisce nelle celebrazioni per i 550 anni dalla nascita di Michelangelo, evocandone la forza spirituale senza tentare alcuna replica: non per confronto, ma per captazione. Quella di Wang è una pittura che non si oppone, ma entra in risonanza. 

Le opere di Wang Yancheng alle Gallerie dell’Accademia di Firenze 

Le sue 18 opere – tra cui alcune inedite realizzate per l’occasione – sono frutto di un gesto che affonda nel magma della materia, trasformando il vuoto in campo di tensione e di nascita. È una pittura che non rappresenta ma genera, che non descrive ma lascia accadere: un evento, uno scaturire, un’esplosione silenziosa. La materia pittorica di Wang non si fonda su forme compiute, ma piuttosto su gesti in divenire: la traccia, la goccia, l’energia che ancora pulsa. In questa concezione, ogni opera diviene un microcosmo potentissimo, in cui l’infinitesimale – una singola macchia di colore – possiede risonanza cosmica. Il dialogo tra macro e micro, tra universo e particella, è parte integrante della sua poetica. C’è qualcosa di “tellurico” nelle opere di Yancheng che le mette in risonanza con i Prigioni, che si trovano nello stesso ambiente della mostra. Tele che emergono dalla materia come se si liberassero, vibrando di energia interna. Così come i Prigioni di Michelangelo, che si dibattono per emergere dalla pietra, i quadri di Wang Yanchehg sembrano premuti dal basso, come se una forza interiore li spingesse verso la superficie. Ma se la scultura di Michelangelo si tende verso la forma ideale, l’artista cinese punta a far risuonare un ritmo primigenio dell’esistenza. 

Wang Yancheng rilegge Michelangelo  

L’intento dell’artista non è imitare Michelangelo – un’impresa impossibile – bensì coglierne l’energia spirituale.
“Michelangelo” – spiega Wang Yancheng – “ci insegna che l’arte non è solo rappresentazione, ma è un ponte verso dimensioni superiori, dove l’energia e lo spirito si fondono in un’unica, eterna manifestazione.” 

Nel solco delle parole di Arshile Gorky, citate dallo stesso Simongini durante l’inaugurazione, l’arte è “una grandiosa danza corale” in cui epoche e culture diverse si tengono per mano, con il rischio di perdere significato se il cerchio si spezza. È in questa prospettiva che Yancheng si colloca come un “solista” che emerge nel momento in cui prende parte alla danza comune. Ecco allora che il vuoto non è il nulla, ma una forma di pienezza condivisa, uno spazio sacro dove ogni gesto si connette con tutti i gesti precedenti.
In questa prospettiva Wang Yancheng è anche pittore del dialogo. La sua opera nasce da un intreccio di mondi: l’Oriente cinese, con la sua sensibilità per la calligrafia, il ritmo e la meditazione, e l’Occidente europeo, in particolare la Francia – dove l’artista risiede da decenni – e la lezione dell’espressionismo astratto americano, da Pollock a Rothko. In questa metameria culturale, nulla è ibrido, tutto è organico. 

Wang Yancheng ieri e oggi 


Se nelle opere del biennio 2018–2020, già esposte alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, si avvertiva ancora un legame con la natura, nelle più recenti si compie una trasformazione radicale, la pittura si libera da ogni mimetismo, diventa assoluta, puro linguaggio dell’anima. La materia si spiritualizza, e il colore diviene l’alfabeto del silenzio. Non è un linguaggio che “dice”, ma che evoca, vibra, pulsa.
I suoi rossi, i suoi neri, gli ori, gli azzurri non rimandano a oggetti, ma a stati di coscienza. Ogni tela è una soglia, una tensione, un campo di forze in cui l’occhio si perde e l’anima si orienta. L’artista, con gesto istintivo e colto al tempo stesso, costruisce paesaggi interiori che non hanno confini ma si danno come cosmografie emotive che si dispiegano nel tempo lento della contemplazione.
 

Le opere di Wang Yancheng in dialogo con Michelangelo 

Non a caso, la mostra è collocata in un luogo simbolico: tra il David e i Prigioni, tra l’ideale e il divenire. Le opere di Wang Yancheng non gareggiano, ma convivono, traggono forza. Non disturbano, ma amplificano. Creano un controcanto sottile e vibrante, un’eco contemporanea che non frattura, ma completa.
La scelta di esporre alla Galleria dell’Accademia non è solo estetica, ma profondamente simbolica. In questo spazio sacro, il presente e il passato si tendono la mano. Firenze accoglie così un artista che porta in sé l’eredità millenaria della pittura cinese e la trasforma in un atto di apertura, di fusione, di infinito.
La sua arte non è concettuale, non è narrativa, non è nemmeno puramente lirica. È gesto energetico, scrittura dello spirito, meditazione in azione. Ogni opera è un luogo, non da abitare, ma da attraversare, non chiede di essere capita, ma esperita. È il vuoto, ancora una volta, a guidare la mano dell’artista. Ma questo vuoto non è silenzio, è rumore primordiale. Non è statico, ma fertile. Non è freddo, ma brucia. In lui si annida la luce, da lui germina l’energia, e nell’energia si manifesta l’infinito.
 

Domenico Ioppolo 
 
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Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo è Amministratore Delegato di Campus e direttore del Milano Marketing Festival. È stato Managing Director Emea di Nielsen Media, Ad di WMC, Initiave Media e Classpi. Ha insegnato in Università italiane e straniere, pubblicando diversi contributi su media e marketing,…

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