Carlo Battaglia – Mare. Opere dal 1976 al 2001

Curata da Marco Meneguzzo con la collaborazione della Fondazione Carlo Battaglia, la mostra parte dall’assunto che Carlo Battaglia abbia sempre dipinto il mare.
Comunicato stampa
Sarà visibile sino a metà settembre nella sede romana di Capitolium Art Gallery, in via delle Mantellate a Trastevere, “Carlo Battaglia. Mare. Opere dal 1976 al 2001”.
Curata da Marco Meneguzzo con la collaborazione della Fondazione Carlo Battaglia, la mostra parte dall’assunto che Carlo Battaglia abbia sempre dipinto il mare, notizia di non poco conto se si considera che l’artista è da sempre considerato uno dei massimi esponenti della Pittura analitica, tendenza artistica dei rivoluzionari anni Settanta ideologicamente orientata a produrre una pittura assolutamente non rappresentativa.
Carlo Battaglia e la pittura analitica,
storia di un equivoco critico
Accantonando ogni intento celebrativo nei confronti di un pittore dalla lunga e importante carriera, la mostra è più che altro orientata a ridefinire la lettura critica del suo lavoro, un’interpretazione consolidatasi nel tempo ma che oggi appare frutto di un fraintendimento maturato nel clima fortemente ideologizzato degli anni Settanta. Ripercorrere la vicenda biografica e artistica di Carlo Battaglia alla luce dei nuovi spunti di riflessione suggeriti da Meneguzzo diventa così un’utile occasione per domandarsi se non sia giunto il tempo di affrontare con sguardo più fresco tutto l’interessante capitolo della storia dell’arte italiana tra anni ’70 e ’80 del ‘900.
Al di là delle forzature interpretative, la ricerca di Carlo Battaglia si è mossa dall’inizio e con costanza tra due polarità: il mare e le suggestioni di una profonda cultura. Nato nel 1933 sull’Isola della Maddalena, l’artista ha introiettato l’abitudine all’osservazione del mare dalla prima infanzia. A Roma arriva da adolescente, con idee poco chiare sull’indirizzo da dare alla sua vita. Sta di fatto che, entrato all’Accademia di Belle Arti per studiare scenografia, ne esce pittore, una conversione a cui non è estranea l’influenza esercitata su quell’irrequieto discepolo da uno dei suoi docenti, Toti Scialoja. Sarà Scialoja a introdurlo alla rivoluzionaria novità dell’espressionismo astratto americano, una scoperta che conquista totalmente il giovane Battaglia, da quel momento sempre sintonizzato più sul contesto artistico internazionale che su quello italiano. È stato correttamente osservato che, se la sua tesi di fine corso su Pollock fosse stata pubblicata, sarebbe stata il primo studio uscito in Italia sul maestro dell’action painting.
Il percorso di ulteriore formazione che Battaglia si impone dopo gli studi chiarisce molto del suo globalizzante approccio all’esperienza artistica: da una parte, le lunghe esperienze di viaggio per poter osservare dal vivo i grandi maestri dell’arte contemporanea, in quell’epoca ancora assenti dalla scena espositiva italiana, e, dall’altra, l’esercizio perfettamente accademico delle estenuanti sedute di disegno volte a copiare i capolavori dei maestri del passato. L’incontro con la gallerista Carla Panicali, destinata a diventare sua moglie nel 1972, amplia ulteriormente il suo sguardo sui più aggiornati scenari artistici internazionali. Carla è la fondatrice della sede italiana della Marlborough Gallery, un punto di snodo per rilevanti artisti di varie nazionalità e generazioni. Grazie a quell’abile tessitrice di relazioni, il viaggio più agognato da Battaglia, un soggiorno di sei mesi a New York nel ‘67, si trasformerà in un’esperienza straordinaria scandita dalle visite quotidiane nello studio di Mark Rothko, con cui allaccia una vera amicizia, e dall’accoglienza nell’ambiente degli espressionisti astratti, assiduamente frequentati. Quel viaggio porta Battaglia alla definitiva maturazione di un suo linguaggio personale, una cifra assolutamente autonoma che lo accompagnerà per sempre.
La metà degli anni Sessanta, la stagione dei suoi trent’anni, segna anche l’inizio delle esperienze espositive, Battaglia si sente finalmente pronto per affrontare il pubblico e il pubblico risponde, il decollo della sua carriera è veloce. Nel 1970 è già considerato un artista meritevole di un invito alla Biennale di Venezia con una sala personale. I titoli delle otto opere esposte sono un trasparente richiamo alla materia che nutre la sua ricerca: il mare, la poesia, riferimenti a Mark Rothko, l’amico-maestro che proprio in quell’anno si era tolto la vita, eppure proprio da quell’anno inizia l’assimilazione critica del suo lavoro alla tendenza che oggi definiamo tout court pittura analitica ma di cui inizialmente si era parlato come di Nuova pittura o Pittura Pittura. Per tutto il decennio degli anni Settanta Carlo Battaglia sarà invitato alle più importanti esposizioni dedicate a illustrare gli esiti della nuova tendenza e anche oggi non è ipotizzabile una mostra o uno studio sul tema che non veda il suo nome proposto come quello di uno dei capiscuola.
Sull’ortodossia del suo lavoro rispetto alle severe premesse teoriche della pittura analitica, un frastagliato arcipelago di artisti mai strutturatosi in movimento, ci sarebbe però da discutere e non stupisce che i duri e puri del gruppo lo guardassero con sospetto. Che Battaglia non fosse uno di loro i più rigorosi tra i pittori-pittori lo avevano capito da subito, rimanendo però del tutto inascoltati. A cinquant’anni di distanza, la mostra di Capitolium dimostra che quegli spiriti polemici non avevano tutti torti. In anni in cui la dominante arte concettuale aveva stilato il certificato di morte del linguaggio pittorico, lo scopo dichiarato degli analitici era quello di difendere le ragioni della pittura dimostrandone la persistente attualità. E siccome al proprio tempo è difficile sfuggire, la strada scelta per ridare ossigeno all’arte antica del colore su supporto fu quella di teorizzare e produrre una pittura altamente concettuale. L’idea guida era quella di rinnovare radicalmente il senso della pittura tornando alla sua origine. Gli analitici erano gli analisti della pittura, capillarmente indagata nei suoi elementi basici: il colore, il supporto, il processo di lavoro, il ruolo dell’artista. La possibilità di rappresentare un soggetto era del tutto bandita dalla loro ricerca, così come ogni approccio di tipo sentimentale. Ne risultavano opere di rigorosa essenzialità non rappresentativa ma anche di alta qualità artigianale, prodotte com’erano da artisti che, a furia di studiare le modalità del dipingere, a dipingere avevano imparato davvero.
Anche le composizioni di Battaglia erano caratterizzate da una minimale essenzialità e sulla sapienza della sua pittura c’era poco da eccepire, di “tonalità quasi cangianti” parla Meneguzzo nel saggio in catalogo e di un’attenzione ai pigmenti usati e alle loro mescolanze che crea sapienti trasparenze e trasforma la superficie dipinta in una pelle dalle infinite sfumature. Ma gli esiti in parte formalmente apparentabili a quelli dei colleghi con cui era chiamato a esporre non derivavano dalle stesse premesse teoriche e proprio questa indifferenza agli aspetti più concettuali della pittura analitica avrebbe dovuto collocarlo al di fuori di un discorso su quella tendenza.
Che Battaglia in fondo un soggetto lo avesse sempre avuto e che quel soggetto fosse il mare risulterà evidente ai visitatori della mostra di Capitolium, perché le opere parlano da sole, ma all’epoca su quell’evidenza si sorvolò totalmente e con beneficio, va detto, della carriera dell’artista, sicuramente avvantaggiata dall’inclusione in una temperie di grande successo critico e di mercato. Nel saggio di Meneguzzo, il racconto del corto circuito critico creatosi attorno al nome di Battaglia è persino divertente, un qui pro quo destinato ad autoalimentarsi. L’artista decretava che dai suoi cataloghi sarebbero state bandite le riproduzioni fotografiche delle opere sostituite dai perimetri geometrici delle loro dimensioni in scala? A tutti pareva che quella fosse l’ennesima conferma di un suo concettualismo di fondo, una critica radicale al concetto di riproducibilità seriale dell’opera d’arte, mentre in realtà la scelta dell’artista era motivata dalla prosaica constatazione che la fotografia a colori, una tecnica allora ancora molto giovane, non sembrava capace di riprodurre i sapienti tonalismi dei suoi lavori con un buon margine di approssimazione. E, in un meccanismo di inesorabile avvitamento comunicativo, più di lui si parlava come di uno degli esponenti di vertice della tendenza analitica, più veniva invitato alle mostre a essa dedicate, e più lo si vedeva in quelle mostre più si avvalorava il suo protagonismo nell’ambito di quel contesto.
La mostra
La visione dal vivo delle opere selezionate da Meneguzzo per la mostra, dodici tele eseguite tra il 1976 e il 2001, compone un percorso che sfata ogni dubbio sulla circostanza che l’artista un soggetto lo avesse e che quel soggetto elettivo fosse il mare, il più astratto dei soggetti naturalistici, l’alfa e l’omega in cui il grado massimo dell’astrazione converge con lo sguardo soggiogato dalla realtà della natura.
Suggeriscono già la struttura essenziale del paesaggio marino le opere degli anni ’70, a sviluppo rigorosamente orizzontale. Il suggerimento si fa più evidente nelle opere prodotte a partire dagli anni ’80, quando il pittore si defila dalla scena più mondana del suo mestiere concentrandosi sul lavoro in studio e nuove sperimentazioni tecniche, da pittore rinascimentale, come la tempera all’uovo. Sempre più interessato alla giornaliera contemplazione del mare ritornerà infine vivere sull’isola in cui era nato, La Maddalena. In quel luogo tanto amato muore nel 2005.