Poesia d’avanguardia con Jonida Prifti al Premio Strega 2025

Continuiamo con la serie di interviste ai 12 autori selezionati per il Premio Strega Poesia. Qui parliamo con la poeta albanese Jonida Prifti, che nei suoi componimenti unisce suono e parole

in braccio al ventre l’infante
al disconoscere d’onde
visione cruda di saliva di fluoro
la tormenta negli occhi tuoi
al tramonto, dopo un chupito
un grido dal mare
nell’udito forsennato del fluido in gestazione
dal cielo il vortice di Calima
scorrimento rallentato di versi progettuali
nelle bocche di stato, accordi finali.

Riprendiamo la nostra ricognizione sulla poesia contemporanea introducendo il lavoro di Jonida Prifti: poeta la cui ricerca si discosta, in parte, da altri autori e autrici analizzati in precedenza. Il suo Sorelle di confine (Marco Saya, 2024) è una raccolta che, all’interno della dozzina del Premio Strega Poesia 2025, si distingue per il carattere avanguardista di buona parte dei testi. Questi ultimi, infatti, provengono da un repertorio che nasce e vive al servizio di una lunga sperimentazione che unisce poesia e suono.

Chi è la poeta Jonida Prifti

Jonida Prifti (Berat, 1982), l’autrice, è una poeta e artista poliedrica la cui ricerca spazia dalla poesia sonora e musica alle arti visive. Nata in Albania ed emigrata in Italia nel 2001, si laurea in Letteratura con una tesi magistrale sulla poetessa italiana Patrizia Vicinelli presso l’Università degli Studi de “La Sapienza” di Roma. Ha partecipato a diversi eventi internazionali di arti performative, da sola o nell’ambito di progetti che l’hanno vista e la vedono protagonista: Acchiappashpirt, assieme al musicista noise Stefano Di Trapani, e il duo J A insieme con la musicista Eva Geist. La sua tesi è stata poi trasformata in e-book nel 2014. 
A marzo del 2025 ha invece pubblicato l’album poetico/musicale Annia (Maple death + My Own Private records). Il poema Annia è tratto dal libro Sorelle di confine. Prifti è stata inoltre finalista al Premio Pagliarani 2024 con il testo di prosa poetica A squarciagola.

Intervista alla poeta Jonida Prifti

Iniziamo parlando di Sorelle di confine e di Premio Strega. Com’è arrivata la comunicazione dell’approdo in dozzina e come l’ha accolta?
La notizia me l’ha consegnata Antonio Bux (direttore della collana Sottotraccia), con uno screenshot su Whatsapp. Ho sgranato gli occhi per capire che ci fosse scritto, perchè l’immagine era sfocata. Una volta letto il contenuto mi sono detta “Però!” Sono contenta di esserci, ma vivo questo stato d’animo con un senso realistico. I miei piedi sono piantati bene per terra.
 
Che rapporto ha con il concetto di una poesia che sia “politica” e con il fatto che alla sua raccolta si possa associare questa definizione?
Sorelle di confine è un libro politico, come tutti i miei libri precedenti, anche se non dichiarati apertamente. In genere preferisco non manifestare o abbracciare apertamente tendenze o correnti perché è la poesia che deve comunicare!
 
In Sorelle di confine vengono utilizzate entrambe le sue due lingue identitarie: l’albanese, lingua madre, e l’italiano, lingua acquisita. Mi risulta che parli anche inglese e probabilmente altre lingue, e tra le sue professioni figura quella di traduttrice e interprete. Tra tutte le lingue che conosce e con cui ha sperimentato (nell’espressione sia scritta sia orale), ce n’è una che ritiene più adatta delle altre per fare poesia, e se sì perché?
Oltre alla mia lingua madre, direi la lingua italiana perché è ricca nel vocabolario e mi permette di giocare molto con le parole, mi diverte e mi soddisfa di più.
 
La sua poesia si affida spesso al veicolo della performatività e dell’oralità (vedi i progetti Acchiappashpirt e J A), con derive pioneristiche che coniugano parlato e musica, voce umana e voce della macchina. Com’è iniziato il suo percorso di sperimentazione in questo senso? Quando si è accorta che l’utilizzo di effetti sonori di stampo elettronico potevano sposarsi con il fare poesia?
Ho iniziato a modulare la mia voce attraverso il mezzo del programma audio di registrazione vocale rudimentale del mio vecchio pc nel 2006, mentre scrivevo la tesi triennale su Dino Campana. Poi nel 2008, dopo aver incontrato il musicista noise Stefano Di Trapani, il quale mi propose di fare qualche prova per fare della poesia sonora, ho avuto modo di dissetare le mie curiosità e di entrare nel mondo dell’elettronica. In quel periodo invece mi preparavo per la tesi magistrale su Patrizia Vicinelli e questo studio mi ha permesso di ampliare la mia conoscenza anche sulla poesia performativa.
 
Chiudiamo con quella che, ovviamente, è più una provocazione che una domanda: è più intensa la parola ascoltata o quella letta? Quale, tra le due maniere, ha il potere di lasciare il segno più profondo e duraturo?
Dipende se la parola è degna di essere letta o ascoltata. Perché se una parola che leggo non mi colpisce non mi colpirà nemmeno se detta. Per come la vedo io, la parola è dentro un ecosistema di fonemi e quindi immersa nel grande bosco del significato. Se nel panorama vedo solo il significato, ciò dopo un po’ mi annoia, ma se comincio a sentire il movimento degli alberi e il corso delle acque circostanti, mi perdo volentieri nel significante. Ed è qui che in genere sento di voler stare.
 
 
Fuso in argilla il melograno attraversa le nuvole.

La testa sposta l’aria delle vocali. Le bocche allargano

torture reali.

Viso tra parei rossi. Pareti di riso. Paresi di raso.

Ti vedo nei triangoli, sorella di confine, in grigi chiarori.


Dov’è il campo? Dov’è il grano? Dov’è lo strano?
Dalla nave, mani a indicare l’acqua.

Specchio d’alba. Diciott’ore di colli in fiamme. Polmoni 

blu.

Non saltare il livello!

Viso tra parei rossi. Pareti di riso. Paresi di raso.

Ti vedo nei triangoli. Sorella di confine. Attendi.


Maria Oppo

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