Debarbarizzare l’Europa. L’editoriale di Marcello Faletra

La mancata performance di Franco Berardi a Kassel, dal provocatorio titolo Auschwitz on the beach, sposta l’attenzione su un tema di grande attualità: una dilagante deumanizzazione che sta pervadendo i Paesi occidentali. Una pericolosa attitudine ad azzerare l’umanità dell’altro ‒specie quando si tratta di un individuo in difficoltà, di un migrante bisognoso di soccorso, di uno dei trentamila morti nel Mar Mediterraneo ‒ e dunque a considerarlo estraneo, diverso. Meccanismo drammaticamente simili a quelli che innescarono la Shoah.

Scrive Silvia Truzzi ne Il Fatto del 7 settembre 2017 commentando la mancata performance di Franco Berardi a Kassel: “Noi europei, ammesso che esista un noi, non deportiamo nessuno e non abbiamo ammazzato trentamila persone nel Mar Mediterraneo: il fatto che trentamila persone siano morte è un’immane tragedia, ma non possiamo dire che li abbiamo ammazzati”, bisogna dirlo, la valutazione del grado di colpevolezza secondo la Truzzi è meramente empirica, appartiene al vecchio materialismo meccanicista pre-illuminista. Dal momento che “nessuno” degli europei ha ammazzato materialmente i “trentamila” morti nel Mediterraneo, se ne deduce che tutti gli europei sono innocenti. E, dunque, la questione posta da Franco Berardi circa la provocazione di utilizzare l’espressione “Auschwitz on the beach” a Kassel è banale.
Nel finale del suo articolo la Truzzi poi afferma che questi morti sono “un dramma di tutti, ma non è l’Olocausto di tutti”. Un’espressione a effetto. Che vuol dire?
Forse la Truzzi con l’espressione “dramma di tutti” vuol dire che è un dramma per tutti noi? Eppure all’inizio del suo articolo esordiva dubitando di un presunto “noi”: “Ammesso che esista un noi”.
Insomma per chi sarebbe un dramma la questione dei profughi e delle decine di migliaia di morti nel Mediterraneo, se non abbiamo un noi in cui riconoscerci?
Inoltre, l’espressione “dramma per tutti noi”, sposta la sostanza della questione. In genere il dramma ha per oggetto colui o coloro che lo subiscono, mentre in questo caso sembrerebbe che “tutti noi” europei viviamo un dramma causato dai profughi.
Se fosse così ci troveremmo davanti a un pericoloso (inconsapevole?) oscurantismo, perché “dramma per tutti noi” sposta il soggetto di questo dramma: siamo noi che viviamo il dramma e non coloro che lo vivono fino a morirne – che è analogo a quello che in genere vuol scoprire nella persecuzione storica degli ebrei i segni della loro presunta “diversità”, mentre occorrerebbe indagare sull’ossessione omicida dei persecutori.

Ridurre queste morti a un mero fatto statistico, burocratizzandoli, è già essere complici della loro fine. Non avranno alcun diritto alla memoria. Nessuno li ha mai conosciuti. Nessuno li riconosce come soggetti di diritto. Sono senza status giuridico, sono meno di niente“.

SILENZIO E MEMORIA

Ora, bisogna rassegnarsi alla rivendicazione di questa presunta innocenza? Soprattutto, poi, quando viene affermato nell’articolo: “Il fatto che trentamila persone siano morte è un’immane tragedia”, trentamila persone morte, dunque. Morti, semplicemente morti.
Nient’altro da dire per la Truzzi? Nulla su come sono morti? Niente sul perché muoiono? Neanche un cenno su cosa li ha spinti alla morte? Sono morti, punto e basta! Certo, a scanso di equivoci aggiunge l’espressione retoricamente pietista “un’immane tragedia”. Che diventa una specie di paraurti da ogni eventuale critica.  D’altra parte come non notare il tono fatalistico a cui è ridotta “l’immane tragedia”, come se si trattasse di un terremoto e non di morti causate dalle politiche razziste occidentali, anzi globali, di cui si ha ben cura di evitare di parlare delle cause.
Inoltre, nell’articolo, che Berardi parli di morti fabbricate dalle politiche estere europee non se ne parla. L’unica preoccupazione della giornalista è l’azzardo col quale Berardi ha osato utilizzare la parola Auschwitz.
Ieri gli ebrei erano il popolo al quale non era riconosciuto alcun diritto, oggi, soprattutto dopo il 1967 (cioè dopo la guerra dei sei giorni) godono di ogni diritto, compreso il diritto alla memoria, che nacque contro un colpevole silenzio, di cui i campioni insuperabili sono stati proprio i Paesi occidentali, questi presunti “innocenti”. Ma le parole della giornalista del Fatto, che cerca di banalizzare la provocazione di Franco Berardi, chiama in causa una questione più profonda che le è sfuggita o a cui non ha mai pensato, e che fu alla base dello sterminio degli ebrei: si tratta, con le parole di Hannah Arendt, della disgrazia “degli individui senza status giuridico… Nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta, nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge”. In questo passo della Arendt c’è tutta la questione posta da Berardi. Il fatto, cioè, che nessuno reclami la loro esistenza come un diritto alla vita, proprio questo fatto li accomuna agli ebrei che prima di essere sterminati furono privati di ogni diritto e ridotti alla stregua di cose qualsiasi. È questa la profonda ragione della mancata performance di Berardi, che, se viene ridotta a sola provocazione, senza considerare il contesto nel quale è impiegata, appare vuota e inconsistente.
È chiaro – e storicamente dimostrato ‒ che il processo di deumanizzazione dei migranti è il primo gradino per considerarli meno di niente, dunque superflui. Zygmunt Bauman ricordava che “gli oggetti disumanizzati non possono essere difensori di una «causa», e tanto meno di una causa giusta…di fatto non hanno nessun diritto alla soggettività”. Per gli Stati europei questi esseri sono un fattore di disturbo.
È proprio questa assenza di riconoscimento giuridico che consente un confronto sulle dinamiche storiche – sullo “status giuridico” secondo la Arendt. D’altra parte non si sta facendo di tutto per annullare il “diritto d’asilo”, ultimo baluardo del diritto internazionale?
Se si ascolta bene l’intervento che Franco Berardi ha tenuto a Kassel – intervento tenuto al posto della performance ‒ è evidente che non era nelle sue intenzioni utilizzare a vanvera la parola Auschwitz per farne un’installazione. Infatti ci ha rinunciato subito, per rispetto alle comunità ebraiche, e ha anche chiesto scusa; piuttosto, per lui si è trattato di porre la questione che già Adorno molto tempo fa aveva sottolineato: “Ogni dibattito sull’ideale dell’educazione è inutile ed insignificante rispetto a questo solo fatto: che Auschwitz non si ripeta… La barbarie continua a sussistere, fintantoché sostanzialmente persistono le condizioni che fecero maturare quella ricaduta”. Queste condizioni, paventate da Adorno, sono all’ordine del giorno, come ha sottolineato Berardi, con i senza diritto che annegano tra le sponde dell’Africa e dell’Europa. Ridurre queste morti a un mero fatto statistico, burocratizzandoli, è già essere complici della loro fine. Non avranno alcun diritto alla memoria. Nessuno li ha mai conosciuti. Nessuno li riconosce come soggetti di diritto. Sono senza status giuridico, sono meno di niente.
In genere di Adorno si cita la famosa e abusata espressione che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, ma non si cita mai quello che disse dopo molti anni correggendosi: “dopo Auschwitz… si debbono scrivere però ancora poesie… finché tra gli uomini c’è una coscienza del dolore, ci deve essere appunto anche l’arte come forma oggettiva di questa coscienza”. E quale sarebbe il delitto di Franco Berardi? Ecco un passo significativo e chiaro del suo intervento: “… L’espressione (certo provocatoria) Auschwitz on the beach… lo avevo fatto perché quel nome mi pareva uno scudo, una protezione contro il pericolo (a mio parere sempre più attuale) che Auschwitz ritorni”.

Insomma per chi sarebbe un dramma la questione dei profughi e delle decine di migliaia di morti nel Mediterraneo, se non abbiamo un noi in cui riconoscerci?“.

NEGAZIONE DEL SOCCORSO ED ESTRANEITÀ

Jean Améry, sopravvissuto ad Auschwitz, scrisse. “La speranza di soccorso, la certezza del soccorso è effettivamente una delle acquisizioni fondamentali dell’essere umano e a quanto pare anche dell’animale”. Ecco la questione decisiva posta da un sopravvissuto, e che mantiene inalterata tutta la sua portata di fronte ai Trentamila morti del Mediterraneo, i quali non hanno potuto essere considerati all’altezza dell’essere umano. Ed è il sabotaggio di questa speranza riposta nel soccorso, l’ultima speranza, che mette sullo stesso piano una delle condizioni – non tutte certo – della deumanizzazione di ieri con quella d’oggi a cui faceva riferimento Berardi. Questo principio del “soccorso” assume il valore d’un obbligo se si prende in considerazione un estratto del Talmud commentato da Lévinas – trattato Makkot, 10 a – nel quale si fa esplicito riferimento all’obbligo di ospitare chiunque fugga da un altro luogo. La città-rifugio a cui fa esplicito riferimento il Talmud investe la fratellanza umana, senza condizioni. Ma, ahimè, questo obbligo è calpestato da tutti i pronipoti dei “diritti universali dell’uomo”.
Tempo fa Norman G. Finkelstein, autore de L’industria dell’Olocausto, non un gentile ma figlio di sopravvissuti al ghetto di Varsavia, dichiarò che sacralizzare l’Olocausto è una mistificazione, poiché trasforma la sua unicità nell’unicità degli ebrei, che in tal modo cadono nella trappola di coloro – gli antisemiti – che non vedono l’ora di vederli diversi e separati dal resto dei popoli.
Un popolo, che è visto come “diverso”, è già un buon ingrediente ideologico per alimentare l’antisemitismo, i cui sostenitori non mancano mai, in Europa soprattutto.
Una cosa è certa: da quando Israele si è imposta sulla scena internazionale, dopo la guerra dei sei giorni nel 1967 ed è diventata la sponda di interessi americani nel Medio Oriente, d’un colpo le posizioni sull’Olocausto si sono rovesciate: da che erano ignorate, soprattutto negli Stati Uniti, eccetto rari casi, si sono strategicamente imposte come uno schibboleth, una parola d’ordine. L’opportunismo di questa posizione è stato abbondantemente dimostrato.

Franco Berardi in arte Bifo

Franco Berardi in arte Bifo

CINEMA E MISTIFICAZIONE

Vent’anni fa lo scrittore ebreo ungherese (deportato ad Auschwitz) Imre Kertész si lamentava del fatto che l’industria culturale – e soprattutto cinematografica – avesse americanizzato la Shoah, trasformandola in una religione mediatica e civile di cui la parola “olocausto” ne è il segno, forse irreversibile, più evidente. Osservò pure che il celebre film di Spielberg, Schindler’s List, era kitsch per via dei luoghi comuni che costituivano la cornice del film.
Ridurre a storie semplificate e individuali ciò che invece è socialmente complesso costituiva per Kértesz la forma contemporanea di liquidazione della Shoah nei segni dello spettacolo di massa.
Detto da un sopravvissuto, non si può scambiare per un’opinione. Eppure, il grande successo del film lo rese immune da ogni critica. La potenza irradiante della fiction hollywoodiana che giocava sui sentimenti basati su storie individuali, e non sulle cause dello sterminio, aveva messo a tacere ogni barlume di critica. Ma non quella di Kertész, il quale sottolineava: “Io reputo Kitsch anche le rappresentazioni in cui Auschwitz viene degradata al livello di un caso ebraico-tedesco, di un’incompatibilità tra due gruppi, in cui viene lasciato da parte il profilo politico e psicologico dei moderni totalitarismi”.
Quest’ultima espressione si ricollega alle osservazioni della Arendt sul processo di deumanizzazione psicologica (trattamenti violenti) e politica (nessun diritto) nel quale vengono ingabbiati tutti i rifugiati. Kertész parlava pure di “conformismo dell’Olocausto”, che in tal modo è sottratto ai testimoni per farne un “prodotto” culturale.
“Sentimentalismo dell’olocausto, tabù dell’olocausto, consumismo dell’olocausto”, tutto ciò ha significato, in definitiva, l’impresa cinematografica. Per non parlare del finale del film di Benigni La vita è bella, che in pochi secondi, nel finale, brucia il respiro tragico e poetico nel quale il film era immerso: un carro-armato americano entra nel lager liberando gli ebrei. Un falso storico, perché Auschwitz fu liberata dai russi.
In questi film si trattava non solo del nome Auschwitz, divenuto un segno commerciale dell’inenarrabile e dell’indicibile, ma dell’intera Shoah.  In questi film la potenza persuasiva della fiction prendeva in ostaggio le condizioni storiche che avevano generato Auschwitz.

Nel mondo dell’arte l’impiego di parole d’ordine che fanno leva su problemi sociali, oggi, è quasi una moda. Molti artisti rincorrono un significato sociale in mancanza d’altro“.

CINISMO E FATALISMO

Un frammento de La Scrittura del disastro di Maurice Blanchot afferma: “C’è un limite oltre il quale l’esercizio di un’arte, qualunque essa sia, diventa un insulto alla sventura. Non dimentichiamolo”.
Se il linguaggio precede la memoria, il rischio paventato da Blanchot è forte. Poiché anche un certo uso del linguaggio e delle parole partecipa dell’oblio. Ma per capire ciò occorre capire il contesto nel quale la parola o il linguaggio agiscono. Nel mondo dell’arte l’impiego di parole d’ordine che fanno leva su problemi sociali, oggi, è quasi una moda. Molti artisti rincorrono un significato sociale in mancanza d’altro. In questa rincorsa cade l’avvertimento di Blanchot. C’è un limite. Ma come riconoscerlo?  Questo limite può essere intravisto se vediamo nei fenomeni dell’arte una tendenza all’estetismo, che è indifferente alla storia. L’altro è quello di un revanscismo storicista che ha la tendenza a ignorare le contestualizzazioni degli eventi, relativizzandoli, cioè appiattendoli. In entrambi i casi un certo abuso della memoria e dei conflitti sociali diventa la regola per affermare certi usi dell’arte. E l’intento di Berardi era estraneo sia all’un caso che all’altro.
Il rapporto tra linguaggio e violenza non è nuovo. L’astrazione del linguaggio spesso ha fatto torto alla storia, diventando la storia dei vincitori. Ma non è colpa del linguaggio in sé, ma del fatto che spesso esso è ridotto a un attrezzo e usato di conseguenza come un manganello. Certo il linguaggio ridotto ad “attrezzo”, può essere rivolto contro o a favore. La prostituzione del linguaggio è all’ordine del giorno.  Ma la lingua non è soltanto ruffiana, a volte aiuta a pensare l’urgenza del vero.
Sull’uso o sull’abuso della parola “Auschwitz”, sembra riproporsi la stessa condizione che ha segnato il rapporto tra iconoclastia e iconofilia. Detto così, potrà sembrare riduttivo.
Sul fatto che Auschwitz è l’evento del terrore pianificato, e che non ha eguali nella storia, non nutro dubbi. È questo terrore burocraticamente pianificato a farne qualcosa di in-scambiabile nel commercio del linguaggio. Auschwitz non si scambia con nulla. Ma questo non significa tacere sulle condizioni che lo hanno generato.
È in questa fragile soglia, che è anche la nostra, che il cinismo con la maschera del fatalismo hanno la meglio. Nessuno si immedesima in quelle vittime.
È per questo che i nazisti, forse, stanno ottenendo una vittoria postuma. L’idea che una moltitudine che fugge da guerre generate deliberatamente per loschi interessi dall’Occidente, e conseguentemente sbranata dalla fame e dalla miseria, possa trovare “soccorso”, come scriveva Jean Améry, e ospitalità, come moralmente obbliga il misconosciuto passo del Talmud, tutto ciò s’infrange in sterili polemiche giornalistiche.

Marcello Faletra

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Marcello Faletra

Marcello Faletra

Marcello Faletra è saggista, artista e autore di numerosi articoli e saggi prevalentemente incentrati sulla critica d’arte, l’estetica e la teoria critica dell’immagine. Tra le sue pubblicazioni: “Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea” (Solfanelli, 2009); “Graffiti. Poetiche della…

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