Dodici statue di Cristo crivellate di proiettili: nelle campagne attorno a Milano prima tappa della nuova performance di Bios Vincent. Al via una processione nei luoghi simbolo delle tragedie italiane, corteo funebre contro la pena di morte

Sarà la ventina di chilometri, anche meno, che separano Liscate da Gorgonzola: ultima tappa, per Renzo, prima di scavalcare l’Adda e riparare nella bergamasca. O sarà il calendario: che già da tempo ha salutato i bagordi carnevaleschi per buttarsi nelle penitenziali atmosfere quaresimali. Resta il fatto che la pioggia che picchia impetuosa sulla Camera ardente […]

Sarà la ventina di chilometri, anche meno, che separano Liscate da Gorgonzola: ultima tappa, per Renzo, prima di scavalcare l’Adda e riparare nella bergamasca. O sarà il calendario: che già da tempo ha salutato i bagordi carnevaleschi per buttarsi nelle penitenziali atmosfere quaresimali. Resta il fatto che la pioggia che picchia impetuosa sulla Camera ardente di Bios Vincent (Erice, Trapani – 1976) porta con sé innegabili suggestioni manzoniane. L’acqua che dilava il lazzaretto nella finzione letteraria de I Promessi Sposi, cancella insieme alla peste la colpa del peccato; l’acqua che accompagna Vincent nel primo tempo della sua lunga e dolorosa performance itinerante assume l’inconsapevole analogo carattere dell’elemento di purificazione.
Dodici piccole statue in marmo, interamente dipinte di rosso; dodici Cristi crocifissi adagiati sull’erba fradicia di Cascina di Mezzo, angolo di verde alle estremità orientali di Milano. Dodici bare in legno attendono, scoperchiate. Ha i modi sicuri del passatore vecchio stampo la comparsa della performance, soprabito cerato e cappello a tesa larga; baffo spavaldo: arma la semi-automatica e piazza un colpo in pieno petto ad ogni statua. Dodici colpi come altrettanti rintocchi d’orologio, in un mezzogiorno pieno di pioggia ai margini della città. Poi interviene Bios, il volto coperto dalla maschera che sempre accompagna le sue uscite: passi gravi, ulteriormente appesantiti dal fango. La tenerezza con cui ripone nelle bare ogni statua è quella della madre stremata che lascia i piccoli nella culla. Un tredicesimo feretro porta al suo interno, tragica matrjoska, un contenitore pieno di vino rosso: didascalica parodia del sangue di Cristo. Le casse vengono tappate, una dopo l’altra: sul coperchio, il font è quello proprio di una spedizione commerciale, la loro destinazione. Bologna, città della strage; L’Aquila, ferita dal terremoto; Taranto, intossicata da un effimero progresso; Torino, ultima località dove sia stata eseguita in Italia una condanna capitale. E poi ancora la diga del Vajont, Lampedusa e Milano, Napoli e Lecce. A portare a destinazione il fardello una squadra di figuranti, solitari becchini che portano la testimonianza di un grido di dolore: azione di sensibilizzazione nei confronti della pena di morte, da mettere in scena in luoghi simbolo della sospensione – volontaria o meno – dell’articolo 3 della Costituzione Italiana. Là dove, per un istante o per sempre, ci si è scordati che “Tutti i cittadini hanno pari dignità”.

Francesco Sala

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