William T. Wiley nel 1971 tenne la sua prima mostra allo Studio Marconi. Oggi la Fondazione ripropone alcuni lavori di allora uniti alle sue ultime opere, secondo una formula usata anche altre volte e che risulta sempre vincente, ma che assume un profilo più complesso. A Milano, fino al 26 luglio.
Un piano di opere degli Anni Settanta, corredate da materiali d’archivio, libri e lettere. Il piano superiore cadenzato dagli ultimi grandi lavori. In mezzo non solo una scala (peraltro architettonicamente stupenda) ma la possibilità di legare due momenti della vita di un artista. È ciò che si propone di fare la Fondazione Marconi ogni volta che propone questo mix vincente di antologica e retrospettiva, che non rinuncia mai alla pulizia di una mostra non affollata, inserita in una cornice di eleganti pareti bianche.
William T. Wiley, Sea markman’s ship, 1971
Questa volta tocca a William T. Wiley (Bedford, 1937), protagonista spesso misconosciuto della Funk Art californiana, a partire dalla sua fondazione nel 1967 sotto la guida di Peter Selz. La tensione lirica di certe forme portate anche a When Attitudes Become Form, l’ironia tagliente delle scritte apposte sulle opere, le colte citazioni düreriane e l’impegno sul fronte dell’ecologia o dei diritti umani creano un sistema complesso che va ben oltre le spavalderie funk, e rende questa mostra tutt’altro che facile, a dispetto delle apparenze. Ma chi ha detto che siano le cose facili a essere belle?
Giulio Dalvit
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Giulio Dalvit
Nato nel 1991 a Milano, ha studiato Lettere e si è laureato in Storia dell’arte moderna alla Statale di Milano. Ha collaborato anche con alcuni artisti alla realizzazione di mostre milanesi tra Palazzo Reale, il Museo del 900 e Palazzo…