
Data artist genovese trapiantata a Londra, da anni Tiziana Alocci esplora i territori di confine tra arte, tecnologia e narrazione, trasformando suoni, numeri e metriche apparentemente fredde in esperienze percettive dense, multisensoriali, poetiche. Il suo lavoro si muove tra rigore scientifico e intuizione personale, in quello spazio sottile dove l’analisi incontra la memoria, e dove l’invisibile – quel che non vediamo, non sentiamo, non sappiamo tradurre – diventa visibile, udibile, condivisibile.
Abbiamo incontrato Alocci in occasione del suo ultimo progetto espositivo, Frequencies of belonging, presentato a Genova, città natale a cui è profondamente legata nonostante viva stabilmente all’estero da oltre un decennio. Un ritorno simbolico, ma anche una riflessione pubblica e collettiva sul senso del “sentirsi a casa”, in un tempo in cui lo spazio intimo è sempre più contaminato – e spesso invaso – dal digitale, dal transitorio, dal condiviso. La sua installazione ha fatto dialogare voci raccolte online con paesaggi visivi generati da dati sonori, componendo un racconto a più strati in cui individuale e collettivo si intrecciano, come in una costellazione emotiva sospesa sopra la città.
In questa conversazione, Tiziana ci ha raccontato del suo percorso, degli inizi nel mondo del design dell’informazione, del passaggio all’arte sonora e visiva, delle sue collaborazioni internazionali e delle tensioni che accompagnano chi vive e lavora “altrove”. Parla con naturalezza di software, algoritmi, microfoni speciali e onde elettromagnetiche, ma ciò che colpisce davvero è lo sguardo con cui guarda a tutto questo: mai meramente tecnico, mai estetizzante. Piuttosto, uno sguardo curioso, aperto, abitato da domande profonde e sempre in divenire. Cos’è casa? Dove ci sentiamo accolti? E cosa possiamo restituire, oggi, attraverso l’arte, in un mondo fatto di confini porosi e identità in transito?

Intervista alla data artist Tiziana Alocci
Sei di Genova, però lavori principalmente a Londra.
Sì, vivo a Londra ormai da quasi undici anni. Sono nata a Genova, ho studiato un po’ lì e un po’ a Milano, quindi per un periodo mi sono divisa tra le due città. Londra è arrivata un po’ per caso, in realtà mi ci sono trasferita per amore, non per lavoro. Poi, come spesso accade, la vita si è messa in mezzo, e alla fine sono rimasta. È una città complessa, soprattutto per chi viene da fuori, e con tutto quello che è successo a livello politico ed economico, ho pensato più volte di andarmene. Ma alla fine, sono ancora qui. Poi si vedrà, magari resterò per sempre, magari no.
Pensi che Londra sia una piazza più favorevole rispetto all’Italia, per chi lavora nell’arte digitale?
Non direi che sia più favorevole, ma sicuramente è diversa. Londra si muove più in fretta, anche solo per la legge dei grandi numeri: c’è più passaggio, più visibilità, ed è più facile realizzare progetti anche molto grandi. Ma in Italia ci sono realtà eccellenti, sia come strutture che come persone con cui lavorare. Io ho fatto pochi progetti in Italia, ma sono sempre stati esperienze molto positive. Quello che dispiace è che spesso tutto questo potenziale non venga valorizzato abbastanza a livello internazionale. Siamo forti in casa nostra, ma fuori siamo ancora percepiti un po’ come i “cugini minori”.
Tiziana Alocci e l’arte digitale
Come ti sei avvicinata all’arte digitale? È stato un percorso diretto o un passaggio successivo?
Vengo dal mondo del design dell’informazione: visualizzo dati, da anni, in ambito aziendale, marketing, comunicazione. Dashboard, report, applicazioni… tutto basato sui dati. Nel 2019 ho iniziato a collaborare con un’etichetta discografica berlinese. A loro piaceva il mio lavoro, ma non avevano dati. Così ho cominciato a usare la musica come base. Ho fatto ricerca e scoperto che la visualizzazione del suono è una pratica antica: da Kandinsky in poi. All’inizio lavoravo con la musica altrui, poi ho iniziato a usare la mia voce, il respiro, suoni ambientali registrati in viaggio.
Ho sperimentato con microfoni per catturare suoni sotto acqua, onde elettromagnetiche… e tutto questo è diventato materiale per i miei lavori. Con Nexus, ad esempio, abbiamo deciso di lasciare la voce così com’è: cruda, non filtrata, registrata ovunque – in treno, per strada, al ristorante. In un’epoca in cui tutto è iper-perfezionato, anche con l’AI, questa imperfezione mi sembrava preziosa.
Quindi è una pratica che tende a unire percezione visiva e sonora. C’è un legame con la sinestesia?
Non direi che lavoro sulla sinestesia vera e propria. Quello che faccio è creare paesaggi sonori a partire dai dati. Posso trasformare numeri in suoni, oppure suoni in visualizzazioni. Il processo è molto tecnico, basato su dati reali: frequenze, ampiezze, metriche sonore che si mappano su elementi visivi. Non è pura invenzione artistica, c’è una base scientifica forte. Quello che cerco è una grammatica visiva e sonora coerente: a ogni tipo di suono corrisponde un certo segno, una forma, un ritmo.








Il progetto di data art per Genova
Ti va di raccontarci di più sul progetto realizzato a Genova, Frequency of belonging?
Tutto è nato qualche anno fa, quando vivevo a Londra e mi sono ritrovata in un quartiere che conoscevo, ma che era cambiato completamente: grattacieli nuovi, strade diverse… anche il cielo sembrava sparito. Da lì ho iniziato a osservare le trasformazioni urbane intorno a me. Ho lavorato sull’inquinamento acustico, ma anche sul concetto di “casa”. Mi chiedevo spesso: “Dove mi sento a casa?”. Così, con Nexus, abbiamo deciso di lanciare un’open call online, chiedendo alle persone di mandarmi messaggi vocali in cui raccontavano cos’è, per loro, la casa. Quasi nessuno ha parlato di un luogo fisico. “Casa” era una sensazione, un profumo, una voce amata. Questo mi ha colpito molto.
E come hai trasformato questi messaggi nell’installazione?
Ho raccolto circa cento contributi, li ho ascoltati tutti e selezionati alcuni. Le voci sono diventate il materiale sonoro di base. Da lì ho creato un visual diviso in due parti: una sfera composta da 20 milioni di particelle che si muovono al ritmo delle frequenze vocali, e un muro di parole animato con estratti delle frasi. Ogni volta che il file viene aperto, la visualizzazione cambia leggermente. È un’opera generativa, in costante mutazione. Per me era importante onorare quei messaggi: persone che mi hanno raccontato pezzi intimi della loro vita, pur non conoscendomi.
È interessante il passaggio dall’intimo al pubblico. Com’è stato portare tutto questo in uno spazio urbano?
È stato il mio primo progetto di arte pubblica, e un’esperienza fortissima. Vedere un lavoro nato sul mio computer proiettato nel centro della città dove sono nata è stato emozionante. Il vero lavoro è stato renderlo accessibile anche a chi non ha mai visto arte digitale. E mi è piaciuta la sfida. Ho sempre avuto questo sogno ricorrente: una casa fatta di muri trasparenti. Dentro e fuori si vedono a vicenda. Questa immagine mi ha guidata: l’installazione ha una parte immersiva, chiusa, e uno schermo gigantesco visibile dall’esterno. Due livelli, due mondi che comunicano.
Una bella metafora dell’abitare contemporaneo, tra spazi intimi e condivisi.
Sì, assolutamente. Oggi spesso viviamo in case condivise con sconosciuti. È un’intimità che convive con la temporaneità. In quel contesto, ciò che è privato diventa pubblico e viceversa. È un equilibrio fragile, ma anche molto umano.
“Rendere visibile l’invisibile” è forse il cuore del tuo lavoro. Ti va di approfondire?
Sì, è sempre stato un tema che mi ha affascinato, anche perché a scuola non ero brava in matematica. Eppure oggi lavoro coi numeri. Il punto è proprio questo: se riesco a visualizzarli, diventano comprensibili. I dati sono ovunque, ma non dobbiamo vederli solo come tabelle o grafici. Possono essere immagini, suoni, ambienti. L’anno scorso a Tokyo ho usato un microfono che cattura i campi elettromagnetici e li trasforma in suono. Così ho “ascoltato” i distributori automatici, le insegne al neon. Questo per me è importantissimo: rendere accessibile ciò che è nascosto, anche attraverso altri sensi, non solo la vista. È il mio mantra, ed è ciò che cerco in ogni progetto.
Laura Cocciolillo
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