“Io e il mio Giorgio Armani”. Intervista a Flavio Lucchini
Il loro primo incontro nella Milano degli Anni Sessanta ha segnato l’inizio di un rapporto di affetto e stima reciproca durato oltre mezzo secolo. In concomitanza con l’apertura di una mostra dedicata al celebre stilista scomparso, il fondatore di Vogue e Superstudio ci ha raccontato il “suo” Giorgio Armani

Quando le loro traiettorie si sono incrociate per la prima volta, Flavio Lucchini (Mantova, 1928) si era già fatto un nome nell’editoria di moda mentre Giorgio Armani (1934, Piacenza – 2025, Milano), di qualche anno più giovane, era ancora agli inizi della sua carriera. In comune avevano le origini nella bassa padana e l’amore per il bello riunito con la voglia di svecchiarne i codici. In seguito, il fondatore di Vogue Italia e L’Uomo Vogue (nonché creatore di Superstudio, artista e molto altro ancora) e lo stilista simbolo dell’eleganza Made in Italy hanno proseguito in parallelo frequentando lo stesso quartiere, tra via Forcella, dove il primo aveva aperto la sua prima “cittadella dell’immagine” con la moglie Gisella Borioli e il fotografo Fabrizio Ferri e il secondo realizzava le sue campagne pubblicitarie, via Bergognone, sede del quartier generale di Armani, del Teatro e del Silos, e il Superstudio Più di via Tortona. Legato allo stilista scomparso il 4 settembre da una lunga amicizia, Lucchini ha voluto rendergli omaggio organizzando una mostra nel suo museo FLA FlavioLucchiniArt Museum, un ampio spazio postindustriale nato dall’unione del suo atelier con un ex-rifugio antiaereo della General Electrics adiacente. Il titolo è Grazie Giorgio – L’influenza di Giorgio Armani nelle opere di Flavio Lucchini e sarà visitabile liberamente fino al 28 novembre, con una selezione di sculture e dipinti ispirati al lavoro di Armani e alle sue linee insieme rigorose e sensuali.

Tra lei e Giorgio Armani ci sono stati un intenso scambio professionale e una bella amicizia. Ci racconta il vostro primo incontro?
Lui era il giovane assistente di Nino Cerruti, titolare del Lanificio omonimo, che già aveva una boutique di moda uomo sofisticata e attuale in Place de Madeleine a Parigi. Cerruti produceva a Milano altre linee più easy, Hitman e Flying Cross, che proponevano uno stile moderno. Giorgio in realtà già gestiva tutta la linea Hitman dalle scarpe alla scelta dei tessuti su cui si basavano le collezioni. Fu in occasione di uno dei servizi di L’Uomo Vogue, che avevo creato da poco ma già era il media più influente per la moda maschile, che Nino mi introdusse Giorgio, parlandomene molto bene. Mi colpì la sua passione per il lavoro, l’entusiasmo per le proposte innovative che poteva pubblicare sulla mia testata. Diventò presto quasi un collaboratore, tanto spesso pubblicavamo le sue scelte, a volte pure con lui come modello. Ne eravamo tutti contenti, Nino, Giorgio, io, i fornitori che partecipavano al successo.
Un aneddoto che circola nell’ambiente dell’editoria è che sia stato lei a disegnare il marchio di Armani usando il Bodoni, il carattere di Vogue. Com’è andata?
Un giorno mi arrivano in redazione Giorgio Armani e Sergio Galeotti [co-fondatore della Giorgio Armani S.p. A. e compagno di Armani, N.d.E.]. Avevano discusso con Nino Cerruti fino al punto di rottura. Mi chiesero consiglio. Sapevo quanto Giorgio fosse apprezzato non tanto come “sarto” quanto come “stilista”, parola che ancora non era di uso comune. Era arrivato il momento di mettersi da solo, concordavo con Sergio. Giorgio era indeciso. Non aveva i soldi per fare questo passo, mi disse. Gli offrii un groupage di sei pagine di pubblicità su L’Uomo Vogue: “Ma non ho i soldi“, “A pagarle ci penserai poi“. “Ma non ho i prodotti e nemmeno i tessuti”, “Dopo le sei pagine, bianche con il solo logo, ti offriranno i tessuti e tutto il necessario“. “Ma non ho il marchio!“, “Quello te lo faccio io, subito”. La notte stessa presi l’alfabeto Bodoni originale americano di Vogue che spesso i miei assistenti componevano a mano ritagliando le letterine per fare titoli fantasiosi, e composi io stesso il logo che è diventato famoso. Come è andata è una storia lunga cinquant’anni.

La mostra che ha organizzato si intitola Grazie Giorgio. Per che cosa sente di doverlo ringraziare, a titolo personale, e perché dovremmo farlo tutti?
Dico “Grazie Giorgio” a titolo personale perché la sua passione per il lavoro si rispecchiava nella mia, spesso in uno scambio reciproco, come nell’invito a interpretare la moda militare o guardare con occhi nuovi la moda femminile. Ma l’intero mondo della moda deve ringraziarlo perché il suo successo ha favorito il successo di tutti.

Lei ha attraversato diversi ambienti creativi – la moda, l’arte, il design – e lo ha fatto in maniera moderna, cioè senza innalzare barriere tra una disciplina e l’altra. A quale di questi mondi si sente più legato?
Sono appassionato di architettura, di design, di editoria, di moda, di grafica, ma alla fine sono approdato all’Arte, la mia arte, perché questa mi ha sempre lasciato completamente libero di dire e fare quello che volevo, senza barriere. Dovevo far capire che l’abito è una cosa seria, importante, che trasmette valori e cambiamenti, che riguarda tutti i popoli, che lascia tracce nella storia. Non solo uno status-symbol, una scelta frivola o divertente. Ho sentito questo approccio nella moda di Armani e senza quasi accorgermene l’ho trasferito nel mio lavoro d’artista.




Nel corso della sua lunga carriera ha avuto modo di frequentare moltissimi personaggi che oggi ci appaiono quasi mitologici. Quali sono stati gli incontri più interessanti? Quali porta nel cuore?
Da Andy Warhol a Man Ray, da Fellini a Visconti, da Sottsass a Schifano, da Givenchy a Saint Laurent a Miyake, e tutti gli altri che ho incontrato, li ho amati perché a loro volta mi hanno fatto capire le loro scoperte uniche e originali. Consiglierei a tutti di studiare le vite dei grandi Maestri perché hanno lasciato tracce che durano per sempre.
Da grande esperto di arte e di moda, come vede le crescenti convergenze tra queste due discipline, con i brand del lusso che sono diventati una presenza quasi fissa nelle fiere e nei musei?
I brand del lusso, come dice lei, sono in grado con le loro capacità economiche di andare “oltre”. Il loro teatro è il mondo, non solo la moda ma la cosmetica, l’architettura, i musei, l’arte, gli hotel, i ristoranti, la globalizzazione, la borsa, gli investimenti senza limiti. Possono sbagliare ma comunque possono ritentare. E il nome corre. Senza benzina fai poca strada.
Da bambino si vedeva già destinato a una carriera artistica? Che cosa avrebbe voluto fare “da grande” e che cosa direbbe oggi a un ragazzo che sogna di fare un percorso simile?
Nonostante venissi da una famiglia di contadini nel mantovano, da piccolo ero bravo in disegno e con interesse per l’arte. Avrei voluto fare l’architetto. Ho frequentato l’Accademia di Brera e la Facoltà di Architettura a Venezia. Da adulto il destino mi ha offerto altre opportunità comunque affini al mondo che desideravo. Grafica, pubblicità, art-direction, editoria, moda. Sono felice di tutte le scelte fatte. Ai giovani non mi stanco di dire: cerca prima di tutto di capire “chi” sei. Poi capirai cosa vuoi fare.
Come vede il panorama creativo contemporaneo? Ci sono designer o artisti che le piacciono?
A 97 anni guardo tutto dalla finestra. Soffro a non poter essere più utile come prima. Ora capisco quanto sia bella la vita di chi ha la passione del fare e fa. In tutti i campi. Io ho iniziato ora a concepire un ultimo libro…
Giulia Marani
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