
“Tutto sembra dover essere sempre bianco o nero, ma è quello che c’è in mezzo che mi interessa, l’intersezione”. Cynthia Merhej siede su un divanetto nel suo showroom. Sulle grucce, la sua ultima collezione autunno-inverno 2025. Sul viso, una certa aurea sognante sfumata nel cielo lattiginoso di una tipica domenica parigina. Per la stilista libanese-palestinese, addentrarsi nelle dicotomie senza sottomettersi a definizioni e stereotipi è il mantra del suo brand.
La storia del brand Renaissance Renaissance
Fondato a Beirut nel 2016, dove tutt’ora è interamente prodotto e dove Merhej è nata e cresciuta durante gli ultimi anni della guerra civile, Renaissance Renaissance si muove con disinvoltura tra artigianato tradizionale e sperimentazioni romantiche, tra gravità e leggerezza. Una “celebrazione della couture” in realtà cominciata molto tempo fa a Jaffa, precisamente durante gli Anni Venti del secolo scorso nell’atelier della bisnonna Laurice Srouji, per poi passare il testimone alla madre Laura, creatrice dell’etichetta Nos Intuition attiva a cavallo degli Anni Ottanta e Novanta. Oggi Cynthia Merhej è stata nominata semifinalista al prestigioso premio LVMH, oltre ad essere amatissima da Chloë Sevigny e fresca di collaborazione ai costumi di Bonjour Tristesse – debutto alla regia della scrittrice Durga Chew-Bose e adattamento dell’omonimo romanzo del 1954 di Françoise Sagan. Con la sua narrazione poetica screma echi di epoche lontanissime negli orli recisi, nelle trasparenze opalescenti, nel racconto intimo e universale di disillusioni e di rinascite. Rendendo ogni capo una radicale affermazione culturale.

Intervista a Cynthia Merhej di Renaissance Renaissance
Partiamo dalla tua nuova collezione The protagonist FW25. L’hai descritta come “un’esplorazione di cosa cerchiamo di nascondere e rivelare”. Cosa significa per te?
Uso sempre l’arte e la creatività per elaborare le mie emozioni, i miei sentimenti o qualsiasi situazione stia attraversando. L’ultimo anno è stato molto difficile, con la guerra in Libano e il genocidio a Gaza mi son trovata paralizzata nel buio. In quel momento ho cercato di guardare alla prossima stagione prima di tutto attraverso l’esperienza della terapia. Mi ha aiutato davvero molto, ad esempio anche a scoprire parti represse della mia queerness e a sentirmi finalmente a mio agio con me stessa.
A volte è davvero devastante.
Doloroso, ma liberatorio. Mi sento come la stessa persona ma nuova, perché intera. Non che prima mi nascondessi, ma stavo decisamente reprimendo la mia sessualità. Volevo festeggiare, uscire, divertirmi, esplorare quella parte di me. Così sono entrata in “modalità party”, pensando a cosa avrei indossato. Non mi era mai capitato prima in vita mia. Da lì, ho tradotto questa sensazione in una storia, come una piccola narrazione su cui basare la mia collezione.
Di cosa parla?
Di una donna vestita tutta abbottonata, ispirandomi a reference molto chic come Jecky Kennedy e Audrey Hepburn. Sta andando in giro per la città e continua a vedere scorci di quest’altra donna, che sembra stia tornando da una festa. Diventa ossessionata da lei e inizia a seguirla. La segue in un nightclub e quando arriva faccia a faccia con lei si rende conto che in realtà è lei stessa. È un po’ una metafora per quello che stavo passando in quel momento tra me e me.
E come si traduce nella collezione?
Attraverso un sacco di dettagli costruttivi, letteralmente sono partita dall’idea del bottone e di come si può muovere per rivelare e nascondere. Ho utilizzato molti tessuti che sono solitamente nascosti portandoli in superficie, ad esempio, quello delle fodere, che diventa il materiale principale in modo inedito, delicato, bello. C’è molta attenzione ai particolari dei look da festa, tra paillettes, luccichii argentati, tweed, prendendo tessuti che sono di solito sinonimo di chic ladies per rielaborarli in modo divertente, nelle vibes da party.
Nella tua estetica porti una narrazione molto cinematografica. Hai qualche riferimento in particolare?
Il punto di partenza è sempre come mi sento per poi guardarmi intorno. Mi piace ritagliarmi momenti di completa solitudine, del tempo per elaborare, camminare, lavare i piatti o altro. Vado in biblioteca a perdermi nei libri, lasciandomi guidare da tutto ciò che trovo intuitivo. Spesso capita che vengo attratta da un testo o da una piccola cosa, qualcosa di vago, indefinito, poi inizio a raccogliere spunti qua e là come una gazza e l’idea si trasforma, diventa solida. E sì, guardo molto al cinema. Per questa collezione mi sono ispirata al film Le lacrime amare di Petra von Kant (Rainer Werner Fassbinder, 1972, ndr). Racconta la storia di una stilista solitaria che si innamora di una ragazza più giovane e ne diventa ossessionata al punto da volerla intrappolare. Non voglio intrappolare nessuno (ride, ndr), ma ci sono dei passaggi molto interessanti.
È la parte del tuo lavoro che preferisci, la ricerca?
Non so, mi piace molto, ma a un certo punto inizio a stancarmi, sento il bisogno d’iniziare ad elaborare il tutto, di agire, di portare le idee in vita.
C’è qualcosa che invece proprio detesti?
Che devo fare mille lavori nel mio lavoro (ride, ndr.). Sono molto grata di lavorare con persone davvero cool, ma essendo un brand piccolo tutti dobbiamo fare troppe cose contemporaneamente. Non abbiamo molte risorse, quindi a volte può diventare estenuante. Mi piacerebbe concentrarmi solo sulla direzione creativa, che già di per sé ha mille sfaccettature, ma quando devo occuparmi di spedizioni o logistica o contabilità… il mio cervello non è fatto per quello, ahimé!

Dopotutto creare abiti è un’indole che ti è stata tramandata, diciamo. Sei una stilista di terza generazione, dopo tua madre e prima ancora sua nonna. C’è stato un momento in cui hai realizzato che avresti voluto raccogliere questa “tradizione di famiglia”?
No, dal momento che sono sempre stata in questo ambiente per me è stato molto naturale. Quando ho raggiunto un’età in cui ho cominciato a capire come funziona il sistema, come si progetta una collezione, avevo già la testa piena di idee, bozzetti, modelli. Quindi era semplicemente qualcosa che sapevo mettere in pratica. Ma c’è stato un momento preciso in cui ho pensato di non volerlo fare. È stato più quello che mi ricordo.
Perché?
L’impressione che fosse un settore molto superficiale, dai media, dall’esterno. Vivevo in Libano, quindi quello che vedevo era molto limitato. Mi ricordo i libri di moda di mia madre: mi piaceva guardare i dettagli, il lavoro dei designer che amavo come Lacroix. Ma durante l’adolescenza ho vissuto una sorta di distacco. Per un lungo periodo non sapevo cosa fare e ho amato un sacco di cose diverse. Ho lasciato il Libano per studiare illustrazione a Londra, dove ho avuto più libertà in termini di risorse, riviste, designer da scoprire, che non erano nei libri di mia madre o prettamente mainstream. Lì ho iniziato ad appassionarmi di nuovo, ad esempio grazie a Nicolas Ghesquière da Balenciaga o a Comme des Garçons. Non avevo mai visto cose del genere. Il lavoro di mia mamma era molto pragmatico, basato sulla scelta di tessuti incredibili per abiti super indossabili, ma non concettuale.
Capita, quasi sempre azzarderei, di sopravvalutare il giudizio di nostra mamma. Per te è una sorta di mentore e ora ti aiuta a gestire l’atelier e il campionario a Beirut. Lavorandoci insieme come lo vivi?
Non è facile (ride, ndr.). Scherzo, sono davvero riconoscente di avere qualcuno come lei al mio fianco, perché mia mamma è tosta, ma lo fa per amore, per aiutarmi. Crede veramente in quello che faccio. È un business molto complicato e vuoi con te persone di cui ti puoi fidare. Poi la sua esperienza è incredibile, non avrei mai potuto creare questa collezione senza di lei. La moda non è amichevole, se non fosse stata mia mamma sarebbe stato qualcun altro. Almeno è mia mamma.
E in questo business, ad oggi, credi di aver trovato il tuo spazio?
Per tutta la vita sono stata un’outsider, qualsiasi cosa significhi, quindi l’ho in qualche modo accettato. È una delle ragioni per cui ho creato il marchio, che sistematicamente sta cominciando ad attrarre persone con la mia stessa visione, con cui posso relazionarmi. Rimanere fedeli ai propri valori è molto difficile perché significa che un sacco di gente non vorrà lavorare con te per vari motivi, ma è un modo più appagante di vivere la vita. In generale, se vuoi essere una persona creativa e hai un’idea molto specifica di come vedi il mondo, non ti adatterai mai. È un fatto, devi accettarlo. Ho passato troppo tempo cercando di reprimere, per adattarmi. E mi sentivo uno schifo. La vita è solo tua, sarà sempre un po’ isolata, solitaria, e va bene così. Vada come vada.

Quando è scoppiata la guerra tra Israele e Hamas hai detto che non volevi trasformare la collezione su cui stavi lavorando in “una vera e propria dichiarazione politica, ma partire dalle emozioni. Per esprimere leggerezza senza evacuare la tristezza che c’è dietro”. Si parla costantemente di resistenza. Dal tuo punto di vista, in che modo i vestiti sono uno strumento semplice e immediato per esprimere una posizione?
Per noi è naturale. Non sono qui con gli striscioni o a buttare scritte sui miei vestiti per urlare che sono vestiti militanti. È il fatto che noi esistiamo. Lavoriamo con realtà libanesi, cerco di esaltare la cultura libanese quanto più possibile, cerco di mostrare il lato bello di ciò che stiamo facendo mentre viviamo in un mondo pieno di stereotipi negativi sulla mia regione, dove le persone vengono letteralmente uccise ogni giorno. In questo momento non è proprio popolare dire che sei arabo: avrei potuto anche essere una designer libanese senza parlare della mia eredità e piuttosto far finta che quella parte di me non esistesse. Ma non m’importa, sono molto orgogliosa della mia cultura. E ciò non dev’essere per forza comunicato in modo ovvio, piazzandolo letteralmente sui vestiti. Finché è qualcosa di autentico per te, nessuno può dirti cos’è autentico e cosa no. Poi penso che un’altra forma di resistenza sia non sottostare alla pressione di essere un solo tipo di persona: sexy, cute, whatever. E quando disegno una collezione lo traduco in pezzi che si possono indossare in modi molteplici. Non si tratta di full look e neanche d’imporre un personaggio. Sei tu che collabori e giochi con i vestiti.
Cosa immagini per Renaissance Renaissance?
Di continuare ad andare nella stessa direzione: lavorare rimanendo fedeli a noi stessi, muovendoci organicamente. Ovviamente vorrei anche guadagnare abbastanza per pagare tutti, compresa me stessa (ride ndr.). Per me la priorità è la salute mentale, poi continuare a fare un buon prodotto con l’intento di portare bellezza e il goal finale di aiutare le altre persone, fare programmi, mentorship, progetti che possano contribuire a restituire qualcosa al Libano.
Aurora Mandelli
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