Storia delle Tabi di Margiela, le scarpe con la doppia punta ispirate al Giappone

Nel Giappone del XV Secolo fecero la prima apparizione come calzini, ma è stato l’esordio in passerella nel 1988 a consacrarle nel mondo della moda. Oggi diventano virali su TikTok per un insolito furto

Esistono delle scarpe la cui punta è divisa in due, ricordando vagamente la forma di un piede. Il design in questione è molto antico, ma è stato lo stilista Martin Margiela a renderlo famoso grazie alle Tabi, un modello di scarpa tra i preferiti degli addetti ai lavori della moda. Proprio per la loro caratteristica forma, queste calzature sono state però vittima di un giudizio negativo diffuso, fino a quando non sono diventate virali sui social, lasciando forse per sempre la loro nicchia di riferimento.

La storia originale delle scarpe Tabi

Ma partiamo dalle prime Tabi, che erano dei calzini creati nel Giappone del XV Secolo, quando si aprì il commercio con la Cina. I calzini, come gli stivali, avevano una spaccatura sul davanti che si adattava ai sandali infradito indossati col kimono, sostenendo che l’espediente potesse favorire sia l’equilibrio fisico che quello mentale, oltre a contrastare malattie e stress. All’inizio erano indossati dall’alta società, e il loro colore indicava il livello gerarchico: la classe nobile in oro e viola, la classe operaia in blu e bianco, e solo per le occasioni speciali. Poi c’erano i samurai, che potevano indossare tutte le colorazioni di calzini tabi, tranne quelle dell’alta società. Per secoli questi calzini sono rimasti invariati, fino all’evoluzione negli stivaletti Jika-Tabi datata 1921, che non si deve a Martin Margiela bensì all’imprenditore Tokujirō Ishibashi, il quale aggiunse una suola di gomma per proteggere i piedi dei lavoratori, specie manovali e agricoltori, grazie alle chiusure metalliche, chiamate kohaze, che servivano a fissare la scarpa nella parte superiore.

Tabi di Maison Margiela. Photo via Farfetch
Tabi di Maison Margiela. Photo via Farfetch

Le Tabi di Maison e Martin Margiela

I primi modelli di Jika-tabi non arrivarono negli Usa fino a quando Shigeki Tanakanon vinse la Maratona di Boston del 1951, indossando un paio di sneaker Tabi prodotte da Onitsuka (compagnia giapponese oggi conosciuta col nome di Asics). Molti cercarono di produrre modelli di Tabi diversi, come la “Tabi da maratona”, ma non ebbero davvero successo. L’ingresso nella moda, invece, si concretizza nel 1988, anno del debutto in passerella di Martin Margiela con la sua prima collezione, in cui appaiono le famose Tabi, simbolo del marchio e dell’operato dello stilista-genio. Il primo esemplare delle scarpe fu dipinto di rosso per rendere visibile le loro orme: il motivo avrebbe ispirato anche il gilet che aprì la sfilata dell’89. Da allora la Tabi di Margiela si è moltiplicata in numerose varianti, dalla sneaker alla ballerina, alla versione più sottile con tacco a banana della collezione primavera-estate 2020. Mentre il fenomeno diventava tale, Prada decise di proporre delle soffici Tabi in pelle nella collezione Primavera Estate 2013, mentre Thom Browne abbinò calzettoni Tabi sopra la caviglia a completi da samurai.

La rivincita estetica e sociale delle Tabi di Maison Margiela

Per anni questo particolare design è stato capito solo da chi la moda la studiava o la praticava quotidianamente per lavoro. L’avversione nei confronti delle Tabi è testimoniata, per esempio, dalla spietatezza con cui il pubblico, nel 2015, accolse l’icona di stile Sarah Jessica Parker che ne indossava un paio. Negli ultimi tempi, però, il vento sembra essere cambiato, a tal punto che le Tabi sono diventate oggetto di culto da rubare e regalare alla propria dolce metà, come testimonia una ridicola vicenda divenuta virale sui social network. Le scarpe giapponesi “nobilitate” da Margiela vivono ora un momento di grande successo: non si direbbe proprio che, fino a pochi anni fa, chiunque le indossasse o le scegliesse per creare un look venisse deriso.

Giulio Solfrizzi

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Giulio Solfrizzi

Giulio Solfrizzi

Barese trapiantato a Milano, da sempre ammaliato dall’arte del vestire e del sapersi vestire. Successivamente appassionato di arte a tutto tondo, perseguendo il motto “l’arte per l’arte”. Studente, giornalista di moda e costume, ma anche esperto di comunicazione in crescita.

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