Intervista a Rankin, il fotografo surrealista dello showbiz della moda

Trova nella fotografia un mezzo per esprimere la propria visione, poi fonda un magazine di moda ancora oggi celebre. Immortala il lato più folle e umano delle celebrità, di cui ci parla qui tra divismo e moda in onore del Photo London 2023: ecco cosa ci ha raccontato Rankin

La fotografia di moda può sintetizzare in un singolo scatto gli eccessi che caratterizzano ciascuno di noi meglio di tanti altri mezzi di comunicazione. Oltrepassando la superficialità a cui alcuni la relegano a causa di abiti, trucco e gioielli. Ma chi ha mai pensato che questi siano il contrario della complessità umana? Il fotografo inglese John Rankin Waddell di certo no. Classe 1966, conosciuto propriamente come Rankin, inizia a studiare ragioneria ma capisce che non fa per lui. Frequenta quindi il London College of Printing per approcciarsi alla fotografia, dove conosce coloro che lo affiancheranno nella creazione del magazine Dazed&Confused. Il posto più adatto per i suoi scatti erotici e contrastanti, in cui convivono la perfezione delle celebrità e la follia dell’uomo. Il suo apporto al mondo dell’editoria è notevole, e decide di ribadirlo con il recente libro Dazed Decades Rankin Book 1990-2016, presentato attraverso un firma copie allo stand della galleria 29 Arts In Progress durante il Photo London 2023, consentendo la visione di alcune sue opere inedite che parlano del cambiamento delle norme culturali e di cosa significhi essere famosi. La presentazione comprende anche Polaroid inedite di top model iconiche. Inoltre, il 24 maggio verrà pubblicato un altro volume in collaborazione con il magazine Hunger, curato interamente da lui e contenente nuovi lavori intitolati Timeslice. In occasione dei suoi molteplici progetti, noi di Artribune abbiamo avuto il piacere di parlare con il fotografo surrealista della moda e dello showbiz. Grande alleato dell’umorismo.

Rankin, Gisele, Citizen K, Glamorama, 2004. Courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery

Rankin, Gisele, Citizen K, Glamorama, 2004. Courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery

INTERVISTA A RANKIN

Cosa ti ha consentito di esprimere la fotografia che altre forme d’arte non avrebbero mai potuto fare?
Fino a tempi molto recenti, la realtà è la cosa a cui noi umani abbiamo sempre risposto meglio. Il fatto che la fotografia si basi quasi esclusivamente su questo, significa che posso mostrare al mondo come lo vedo. L’evocazione della realtà è ciò che amiamo intrinsecamente. Che sia per farci ridere, piangere o spaventare. Quindi per un ragazzo che non sapeva scrivere, non era capace a fare arte ma voleva esprimersi, la fotografia è stata una rivelazione.

E cosa ti ha spinto a fare questo piuttosto che altro?
Non sapevo né dipingere né disegnare. Nessuno nella mia famiglia era un creativo, ma è stato liberatorio. Le mie preferenze e opinioni sono state meno complesse perché non ho mai avuto influenze esterne. Erano semplicemente il frutto di ciò che vedevo in biblioteca o nel mondo. Anche l’aver iniziato prima di Internet ha avuto un impatto enorme.

L’APPROCCIO DI RANKIN ALLA FOTOGRAFIA

Si parla di sesso e follia quando si vedono le tue foto. In che modo questi elementi sono presenti nel tuo approccio?
È sempre una sorpresa quando le persone ottengono qualcosa di diverso dalle mie foto. Ma lo adoro. Comunque penso che il mio lavoro si basi sulla seduzione. Sono molto giocoso nel modo in cui mi approccio ai soggetti e come cerco di ottenere il meglio da loro. Sono anche molto consapevole dello spettatore, abbattendo la barriera tra il soggetto stesso e il pubblico.

E come lo comunichi ai tuoi soggetti?
Dico loro di immaginare l’obiettivo come una finestra attraverso cui si guarda una persona che conosci e che ti piace. Quando le persone osservano una fotografia, instaurano con essa un rapporto individuale e intimo. Quello che vedono in una foto riflette quello che piace o non piace. Riguarda il loro rapporto con l’immagine.

Il tuo modo di fare fotografia ha mai avuto come fine quello di sensibilizzare il prossimo?
La fotografia è uno strumento. A volte lo uso solo come tale, per esempio per sensibilizzare riguardo una ONG o un ente di beneficenza. Sono stato anche criticato per questo. Eppure la cosa meravigliosa della fotografia è che non è sempre importante chi stia scattando la foto, ma a cosa serva questa. Se posso fare uso del mio nome per aumentare la consapevolezza, allora lo sto utilizzando positivamente. Ma questo aspetto convive con uno più personale.

È possibile che cercassi un punto d’incontro tra l’aspetto più controverso e quello più pop della fotografia?
Assolutamente. Questa è una visione molto perspicace del mio lavoro. Se aggiungi un po’ di umorismo e una forte dose di irriverenza, allora hai colpito nel segno.

IL RAPPORTO TRA RANKIN E LE CELEBRITÀ

Kate Moss, Madonna e David Bowie sono solo alcune delle celebrità che hai fotografato. Cosa ti hanno lasciato?
Ho un enorme rispetto per i soggetti che fotografo. Per me è una collaborazione: mi stanno dando la loro faccia e il loro tempo, la loro energia e pazienza. Penso che sia qualcosa da rispettare.

E cosa dai tu in cambio?
Una loro prospettiva. Sto cercando di mostrare agli altri come li vedo. In questo modo la mia visione è del tutto empirica.

Per esempio, come definiresti Madonna davanti all’obiettivo?
Una professionista. Capisce il potere della fotografia e ciò che porta al dialogo col suo pubblico. Tra tutti quelli che ho fotografato, penso che lei lo comprenda più di chiunque altro.

Credi che tu e Madonna condividiate lo stesso approccio, seppure tu alla fotografia e lei allo spettacolo?
Non proprio. Penso che una delle abilità che devi imparare per essere un buon fotografo sia essere flessibile e lavorare con diversi tipi di persone. Non capisco mai i fotografi che fanno la stessa foto più e più volte al di là del fatto che possa creare un’estetica distintiva. Per me l’idea di fare la stessa cosa ogni giorno mi spaventerebbe.

Forse la somiglianza è in questo…
Pensandoci bene la somiglianza potrebbe essere che, come Madonna, cerco di reinventare costantemente il mio lavoro. Ma sarebbe un paragone approssimativo perché non essere davanti all’obiettivo è un grande vantaggio per me. Non vorrei mai avere a che fare con il tipo di controllo che ogni celebrità deve affrontare. Ci vuole vera resilienza, soprattutto per lei.

IL PASSATO DI RANKIN CON DAZED

Parliamo di moda adesso. È da poco uscito il libro Dazed Decades Rankin Book 1990-2016, ma com’è stato ripercorrere una grande parte della tua carriera?
Guardare indietro a qualsiasi tuo lavoro di un periodo precedente è sempre una cosa positiva da fare. La riflessione dovrebbe far parte di qualsiasi ambizione creativa. Ogni volta che lo faccio, ne ricavo così tanto. Però con Dazed ho avuto quasi paura di farlo.

Perché?
Confrontarsi con il tuo io più giovane attraverso l’obiettivo di oggi non è sempre comodo. Ero molto ingenuo su così tante cose, posso vederlo in gran parte del mio lavoro. Però la rappresentazione della Londra degli anni ’90 è stata inebriante. Averne fatto parte e averla documentata è stato un tale privilegio. Ho anche apprezzato quanto fossero fantastici i miei coetanei. E come puoi non essere orgoglioso di aver creato qualcosa ancora fiorente?

IL FUTURO DELLA FOTOGRAFIA DI RANKIN

Hai riscontrato dei cambiamenti nel tuo modo di fare fotografia?
C’è un filo diretto che collega tutto il mio lavoro dall’inizio fino a oggi. I temi e i pensieri che cerco di incapsulare sono ancora molto simili. L’unica differenza è che sono un artigiano più esperto, che produce immagini più raffinate (e digitali).

Ma cosa significa per te “fare fotografia di moda”?
La magia di riunire un gruppo di persone creative, e far accadere qualcosa.

E ritieni che le tue fotografie possano essere utili per le nuove generazioni?
Non credo. Anzi, ho dovuto accettare che potrebbero non avere alcun uso. Come fotografo mi relaziono con il tempo ogni giorno. La frazione di secondo necessaria per scattare la foto e l’idea che un’immagine funga da memoria visiva, assumendo un significato temporale, implicano che l’eternità è sospesa nell’aria a ogni scatto dell’otturatore. Un clic seguito da tanti altri. Per essere longevo o avere risonanza devi anche lasciar andare, in questo caso le immagini passate.

Giulio Solfrizzi

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Giulio Solfrizzi

Giulio Solfrizzi

Barese trapiantato a Milano, da sempre ammaliato dall’arte del vestire e del sapersi vestire. Successivamente appassionato di arte a tutto tondo, perseguendo il motto “l’arte per l’arte”. Studente, giornalista di moda e costume, ma anche esperto di comunicazione in crescita.

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