La nostra “costellazione di architetture”. Intervista allo studio AOUMM

“Mai standardizzata”: è una delle definizioni che i quattro fondatori dello studio AOUMM adottano per la loro architettura. Alla fine di anno caratterizzato dal completamento di due importanti interventi, entrambi a Milano, è arrivato il momento di conoscerli

Scorrendo la lista dei 21 progetti attualmente in corsa per l’Italia allo European Union Prize for Contemporary Architecture – Mies van der Rohe Awards 2026 (su 410 candidature ammesse alla prima fase selettiva), si incontra Punto Luce, il centro socio-educativo per bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni inaugurato nel quartiere Gallaratese, a Milano, a maggio 2025. Progettato dallo studio AOUMM, fondato e guidato dagli architetti Luca Astorri, Matteo Poli, Riccardo Maria Balzarotti e Rossella Locatelli, rientra nel circuito nazionale dei Punti Luce di Save the Children. Da oltre un decennio, con la campagna Illuminiamo il futuro, l’ONG ha scelto di consolidare il suo impegno a supporto della fascia di età indicata “accendendo” in tutto il Paese “spazi ad alta densità educativa” in quartieri e periferie svantaggiati; al loro interno offre una pluralità di funzioni e servizi. Il racconto dell’iter progettuale da cui è sorto – si tratta del primo edificio di questo tipo realizzato ex novo da Save the Children – rappresenta il punto di partenza di questa conversazione con gli architetti di AOUMM.

Un ritratto del team AOUMM. Photo © Carlos Gasparotto
Un ritratto del team AOUMM. Photo © Carlos Gasparotto

Intervista agli architetti dello studio AOUMM

Punto Luce è stato costruito in un lotto occupato da un edificio prefabbricato, da anni in disuso e in condizioni di degrado. Com’è nato?
Luca Astorri. A Save the Children ci lega un rapporto decennale: il primo progetto con loro risale a Expo 2015 Milano: era un padiglione poi ricostruito come scuola in un campo profughi libanese. Nella fase post-pandemia, Save the Children ha vinto il bando comunale per l’assegnazione di un’area pubblica nel Gallaratese: fin dall’inizio, la nostra volontà è stata quella di realizzare non solo un centro per la fascia d’età considerata più fragile dopo la pandemia. Volevamo anche riqualificare un lotto su cui insisteva un edificio della metà degli Anni Sessanta, da bonificare e considerato una ferita aperta per la comunità locale.

In questo processo, che ruolo hanno avuto le occasioni di ascolto e scambio con gli esperti del settore e con il quartiere?
LA Fondamentale. Sono state organizzate diverse tavole rotonde con esperti e attori del terzo settore, con presidi delle scuole locali e amministratori. Tutte esperienze che ci ha aiutato a disegnare uno spazio in grado di rispondere a più tipi di esigenze. È un intervento molto minuto, siamo su circa 900 mq coperti, dal grande valore simbolico. Dopo essere stato presidio comunale, sede di uffici, centro per anziani, polo sanitario per i prelievi è rimasto in stato di abbandono. All’inizio l’idea era demolire tutto, ma poi abbiamo deciso di riutilizzarne le fondazioni.

Il progetto Punto Luce per Save the Children nel quartiere Gallaratese

Come siete quindi arrivati alla soluzione in legno?
LA La struttura è completamente in legno, anche per dare un’immagine del tutto diversa rispetto alle soluzioni prefabbricate e in cemento della preesistenza. Punto Luce è coronato da un tetto verde che non vuole ammiccare in maniera superficiale ai temi della sostenibilità. Piuttosto abbiamo inteso la copertura come un quinto prospetto, una facciata in più per le persone le cui case affacciano sull’edificio, dopo anni in cui hanno visto ogni giorno il degrado. All’apparenza può sembrare introverso: in realtà è molto aperto rispetto a prima, ha un’accogliente forma circolare e una corte interna che, come pure gli interni, si presta a usi informali, non programmati.

Usi che, effettivamente, sta accogliendo?
LA Sì. Per esempio il fatto che disponga di un’ottima acustica lo ha reso adatto, una volta al mese, alle esibizioni di una banda locale. Come a volte accade nei nostri progetti, si generano dei cortocircuiti inattesi: le persone iniziano a interagire con quello che abbiamo progettato, andando oltre (magari anche in maniera opposta!) a quanto da noi disegnato. E poi c’è un altro aspetto.

Quale?
LA Punto Luce rispecchia parte dei principi del nostro studio. Ci piace pensare che quello che disegniamo, indipendentemente dalla scala di progettazione, sia “un’infrastruttura per qualcosa che viene dopo”, un supporto verso qualcosa che non è possibile definire a priori. In questo caso è nato per sostenere i ragazzi, ma di fatto aiuta anche la vita di un quartiere. E domani chissà…

Il progetto del ponte ciclopedonale San Cristoforo a Milano

Questo stesso anno, sempre a Milano, avete ultimato la costruzione del ponte ciclopedonale San Cristoforo, nel quartiere Lorenteggio/Giambellino. Un’infrastruttura in cui omaggiate i maestri dell’architettura milanese. Perché?
Riccardo Maria Balzarotti Il ponte nasce da un concorso del 2019, al quale abbiamo partecipato animati dal nostro forte legame con la città di Milano, per ragioni che definirei “sentimentali”. Era un concorso piuttosto atipico: per le dimensioni previste per il ponte, per la zona della città coinvolta (il ponte unisce Lorenteggio e Ronchetto sul Naviglio alla fermata San Cristoforo, sulla linea M4, ndr) e per il fatto che avrebbe generato uno “stravolgimento urbano”. Ci ha richiesto un grossissimo sforzo (anche perché all’epoca, in studio, eravamo pochi rispetto a oggi). È stata una sorpresa vincerlo.

Qual è stato il vostro punto di partenza?
RMB Abbiamo lavorato su tre fronti, a partire dalla ricerca di un carattere per questa infrastruttura. Preliminarmente abbiamo fatto un’indagine su tutti i ponti del Naviglio Grande: da questo studio è emerso che non esiste una tipologia caratteristica. Piuttosto abbiamo rilevato una varietà di epoche, materiali, funzioni. Quindi abbiamo ragionato su un “principio di narratività” anziché sulla sola necessità di unire due punti della città. A questo punto è sorta l’idea dei cosiddetti “transetti”, ovvero dei collegamenti con il corpo di risalita, che si sommano all’asse rettilineo. Li abbiamo intesi come una replica dello spazio urbano disponibile al piano terreno, ma a 7 metri e mezzo di altezza. E qui si arriva al lavoro sulla percezione.

Ovvero?
RMB A Milano non ci sono terrazze pubbliche in quota. Quindi, in una sorta di “democratizzazione dei punti di vista”, le abbiamo inserite nel ponte, aprendo questo spazio di attraversamento pubblico ad altre visuali sul contesto urbano. Il forte legame con Milano, che citavo prima, ci ha infine portato ad aggiungere un altro livello di lettura, direi un tema di varietà e di caratterizzazione urbana dello spazio attraverso un sistema di pilastri diversi uno dall’altro: ciascuno è dedicato a un progettista del Novecento che ha disegnato la città.

Si tratta di Aldo Rossi, Gae Aulenti, Angelo Mangiarotti, Alessandro Mendini, Franco Albini e Gio Ponti, dei quali proponete forme e rimandi con modalità che non passano inosservate.
LA Personalmente considero i pilastri quasi degli “oggetti fuori scala”: un po’ giocosi, possono forse ricordare le opere di Oldenburg. Quello rosso, associato ad Aulenti, secondo me lo avrebbe apprezzato anche lei!

Ponte ciclopedonale San Cristoforo. Foto courtesy AOUMM
Ponte ciclopedonale San Cristoforo. Photo courtesy AOUMM

I progetti (anche editoriali) dello studio AOUMM

A parte questi due recenti esempi milanesi, la storia del vostro studio è caratterizzata da una certa eterogeneità, che riguarda i vostri background, così come i vostri progetti.
Matteo Poli. È così. In parte è voluto; in parte è il risultato di una serie di casualità. L’humus del nostro studio è fatto di una grandissima ricchezza, data anche dalle diverse esperienze di ciascuno di noi. L’eterogeneità prosegue anche con i progetti in corso: diversissimi tra loro in tutto, ci mettono in contatto con committenze altrettanto diverse, alimentando il nostro interesse.

Cosa ci potete anticipare?
MP Si va da una fattoria per la permacultura in Azerbaijan a una consulenza, in corso da circa un anno, per un cantiere nautico ligure che produce imbarcazioni a motore di grandi dimensioni. In parallelo, stiamo partecipando a gare pubbliche che ci permettono di ragionare su quella scala intermedia che agisce tra paesaggio, infrastruttura e architettura. Dunque continuiamo a muoverci tra più ambiti; a unirci è anche la partecipazione attiva alla vita universitaria, con le nostre esperienze di docenza e dottorato tra Milano e Mendrisio. E soprattutto il nostro approccio di metodo, legato alla volontà di posizionarci in modo critico rispetto alle stratificazioni culturali e materiali.

Nel vostro DNA ci sono anche le collaborazioni con artisti come Vanessa Beecroft e Alfredo Jaar, la partecipazione alla Biennale diretta da Rem Koolhaas, gli allestimenti, i progetti editoriali con Giovanna Silva. Parliamo proprio del nuovo libro “Album Architetture – Maputo”, che riunisce le sue fotografie.
LA Con Giovanna abbiamo sviluppato una ricerca sul Modernismo nel contesto del Mozambico. Due anni fa, siamo stati con lei nella capitale Maputo, che è un’ex colonia portoghese. È una città fertile per quanto riguarda le architetture moderniste, con un’impronta tropicale. Si possono trovare soluzioni tecnologiche attente e studiate dal punto di vista della prestazione ambientale. Il lavoro con Giovanna è stato di osservazione della relazione tra la città e le sue architetture, analizzandone anche l’attacco a terra. Eravamo lì a pochi giorni da un uragano: è stato un momento estremamente rivelatorio per capire come le architetture coloniali, in condizioni ambientali estreme, consentano utilizzi informali che sono invece assenti negli edifici contemporanei. Ora insieme stiamo studiando la prossima tappa, forse in Ghana.

Ancora una domanda. Perché vi chiamate AOUMM?
MP Luca e io lavoriamo insieme dal 2008 come Argot Ou. Riccardo e Rossella si chiamavano La Maison Mobile, perché erano sempre in giro. Quando ci siamo uniti (in occasione del concorso per il Velodromo Vigorelli, ndr), inizialmente c’è stata una crasi e per un po’ di tempo ci siamo chiamati Argot Ou La Maison Mobile. Finché, su sollecitazione del notaio, siamo arrivati ad AOUMM. Un anno e mezzo fa abbiamo avuto una “crisi di identità”, pensando che magari avremmo dovuto cambiare il nome. Ma siamo affezionati e lo teniamo.
LA C’è una pizzeria, qua di fianco allo studio, che si chiama in modo simile: ogni tanto ci chiedono delle pizze, sia mai che allarghiamo il business!

Valentina Silvestrini

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "ArtribuneRender", dedicata alla rigenerazione urbana a base culturale. Ha studiato architettura all’Università La Sapienza…

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