Il nuovo museo di Palermo targato Farm Cultural Park. Intervista ad Andrea Bartoli

Naturale evoluzione della Biennale delle Città del Mondo, curata da Farm Foundation, il Museo delle Città del Mondo ha debuttato a Palermo. Il progetto e le prospettive dell’intero ecosistema culturale targato Farm in questa intervista al fondatore Andrea Bartoli

Sono state settimane folli, ma siamo riusciti a mantenere tante promesse”. È soddisfatto (e sorpreso dalla risposta in termini di partecipazione della comunità palermitana) Andrea Bartoli quando, a qualche giorno dall’inaugurazione del neonato Museo delle Città del Mondo del capoluogo siciliano, lo raggiungiamo telefonicamente. Il 2025 non è un anno qualsiasi per quella che lui stesso definisce come la sua “terza figlia”: esito degli sforzi e dalle intuizioni suoi e di sua moglie Florinda Saieva, Farm Cultural Park compie infatti quindici anni. Un traguardo che si somma alla consapevolezza di aver progressivamente realizzato una realtà nata come sperimentale e progressivamente divenuta un modello di riferimento su scala nazionale per la rigenerazione del patrimonio esistente e la sua riattivazione culturale. Un luogo che ha contribuito a ridefinire l’immagine e la reputazione di Favara (Agrigento), coinvolgendo poi altri territori, altre comunità. Il risultato al 2025 è un ecosistema culturale ampio e diffuso, che continua a mantenere lo sguardo vigile (e impegnato) sulla realtà e le urgenze del nostro tempo. 

Andrea Bartoli racconta il nuovo Museo delle Città del Mondo a Palermo

Cosa vuole essere il Museo delle Città del Mondo a Palermo? 
Fondamentalmente una collezione di storie di città. Con due mostre principali, la Scuola di Architettura per bambini, una biblioteca tematica, spazi per laboratori e mostre per la ricerca sul tema della città. Per noi di Farm rappresenterà una casa a Palermo. D’istinto sento che il nostro lavoro in città sarà fatto principalmente fuori dal bellissimo edificio che ci ospita: l’ex Convento dei Crociferi, vicino ai Quattro Canti (all’interno di questo immobile, uno spazio di circa 400mq è stato affidato per cinque anni alla Farm Foundation di Andrea Bartoli e Florinda Saieva tramite bando dell’Agenzia del Demanio, n.d.R.).

A cosa fai riferimento?
L’esperienza che abbiamo fatto con la maratona di apertura del 5 luglio (poi riprenderemo le attività da settembre) conferma che Palermo ha un grande bisogno di mettere in connessione le persone e le organizzazioni, di accogliere progetti trasversali. È emersa la necessità di portare aria nuova, un respiro diverso.

Quale impatto può avere la vostra presenza in città?
Abbiamo l’ambizione di diventare un ulteriore tassello rispetto al posizionamento di Palermo come polo di ricerca sul presente e futuro delle città: speriamo di contribuire a renderla un riferimento rispetto a questi temi. L’entusiasmo e la partecipazione dell’inaugurazione sono stati incredibili. Quella marea di persone è il segnale di un’esigenza di novità.

Da dove siete partiti per concepire l’impianto concettuale del museo?
Oggi il nostro primo tema di ricerca, studio e approfondimento è la geopolitica. Non credo possa essere altrimenti, visto quello che sta accadendo ovunque nel mondo, Stati Uniti inclusi. Noi diamo per scontato l’essere liberi, il poter dire quello che vogliamo, l’uscire e il tornare a casa senza nessuno che ci spari addosso nel frattempo, ma in mezzo mondo non è così. Proporre questi temi alla nostra comunità, alle nostre istituzioni, farlo in questo angolo del pianeta, vuol dire non rinunciare all’idea di partecipare al dibattito mondiale.

Verso una cittadella dell’arte e della cultura ad Agrigento

In queste stesse settimane avete restituito alla città di Agrigento l’ex carcere. Qual è la vostra visione per questa città, così vicina a Favara?
Agrigento ha una prossimità geografica con Favara: siamo solo a pochi chilometri di distanza da Farm Cultural Park. Quest’anno è Capitale della cultura: un percorso non sempre di grandi gioie. Farm sta provando a restituire un po’ di fiducia, con un lavoro dal basso, fatto di coinvolgimento del quartiere, della comunità, degli artisti. La sfida su Agrigento che sembra partita bene: le prime assemblee di comunità sono state molto partecipate, così come l’inaugurazione. Ci sono tante idee in circolo. Ora dobbiamo ragionare sui prossimi passi; lo faremo insieme all’Agenzia del Demanio, che è il padrone di casa, ma soprattutto un interlocutore illuminato. Così come lo è la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, con tutti i suoi bandi per il terzo settore.

Avete riaperto l’ex carcere di San Vito in 45 giorni: suona quasi come un record, per l’Italia.
In 45 giorni e dopo 30 anni di chiusura. Anzi, come ci ha fatto notare un amico agrigentino, è uno spazio che è stato per 600 anni inaccessibile al pubblico: prima era un monastero, poi un carcere. Impossibile per la maggior parte della comunità entrarci. Proprio per questo, il giorno di apertura è stato emozionante vedere fiumi di persone: sono arrivati dalle 13 (un orario volutamente scoraggiante!) alle 20. Una partecipazione straordinaria. Ci piacerebbe proporre aperture notturne, ma serve tempo. È uno spazio molto complesso, enorme, una città dentro una città. Stiamo operando, ovviamente, con i piedi di piombo, serve prudenza.

Nel vostro modello di gestione prevedete di assegnare a più realtà porzioni di spazio, fosse anche per periodi brevi. Come funzionerà l’ex carcere?
Questo è il desiderio. Ed è anche l’unica possibilità per una piena riuscita del progetto nel lungo periodo. Ci piacere coinvolgere e portare fisicamente dentro non solo il quartiere o le realtà locali, ma anche una comunità internazionale. Sarebbe molto bello se diventasse una cittadella dell’arte e della cultura, se qui venissero per un certo numero di mesi artisti e organizzazioni culturali. Con il loro contributo potrebbe arricchire l’ex carcere. Ma pensiamo anche ad altro?

Ovvero?
Ci sono dei temi urgenti, come le crisi umanitarie. Non escluderei di renderlo in parte un luogo di accoglienza: anzi, mi farebbe molto piacere. In questo momento in cui così tanta gente muore, non ha cibo da mangiare, non ha uno spazio dove dormire, noi stiamo molto marcando la nostra posizione politica. Rispetto a tutto quello che sta accadendo nel mondo, alcuni sostengono che le organizzazioni culturali dovrebbero restare neutrali. Noi non la pensiamo assolutamente così. Crediamo di avere la responsabilità di non essere neutrali, di dover usare la nostra posizione per dare voce a chi ne ha di meno. Non è un caso che nella quarta edizione della nostra Biennale Countless Cities ci siano padiglioni importanti dedicati a Gaza (The Gaza Genocide -Una delle più gravi catastrofi umanitarie e morali del nostro tempo, a Mazzarino), a Nazareth, a cura di Razan Zoubi Zeidani (visitabile ad Agrigento), oltre a quelli su Sudan, Congo, Rwanda e Haiti. Altrimenti, che ci stiamo a fare? Se ci saranno le condizioni, ci faremo trovare pronti per fare la nostra parte come in luogo di accoglienza.

Il futuro di Farm Cultural Park 

Ragionare sul futuro, in questo momento storico, suona quasi come un azzardo. Proviamo lo stesso a delineare l’avvenire di Farm: due anni fa siete diventati una fondazione, siete attivi da quindici anni, vi siete espansi sul territorio. Verso cosa puntate?
Rispondo come faccio sempre: l’ipotesi più accreditata, ahimè, è l’estinzione. Considero Farm la terza figlia, quindi puoi immaginare quanto mi possa addolorare anche solo l’idea che tutto finisca. Però la realtà è che facciamo veramente delle cose straordinarie, molto più grandi di noi, ma siamo sempre fragili, in un settore che è già di per sé fragile. Dall’altra parte, ovviamente, coltiviamo anche noi la speranza: vorremmo continuare per i prossimi venti, trent’anni in quello che abbiamo fatto in questi primi quindici. E poi passare il testimone, cosa che in parte è già accaduta: penso alle nostre figlie Carla e Viola e al lavoro che stanno facendo. Di sicuro sento che abbiamo realizzato molto di più di quello che potevamo immaginare di fare nella nostra vita. Poter proseguire così qui in Sicilia e magari arrivare in altre parte del mondo, come per esempio Detroit, sarebbe un sogno. 

Valentina Silvestrini

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "ArtribuneRender", dedicata alla rigenerazione urbana a base culturale. Ha studiato architettura all’Università La Sapienza…

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